COLEI CHE BREVEMENTE FU E CHE MAI IN VITA CONOBBI (Claudio Cisco)
"Colei che brevemente fu
e che mai in vita conobbi"
QUANDO
L'IMMAGINAZIONE ECLISSA LA REALTA'.
L'INCREDIBILE
E MISTERIOSA AVVENTURA
VISSUTA
DA UN RAGAZZO
OLTRE
I CONFINI DELLA VITA
LA
TRAMA DELLA STORIA
La
narrazione è ambientata a Messina, nella parte più alta ed antica del cimitero,
dove è tuttora sepolta la protagonista del racconto.
Manuel,
un ragazzo diciannovenne messinese strano e solitario, rincorre
ossessionatamene l’ombra di una ragazza vissuta nella stessa città per quasi
diciassette anni nel secolo dell’Ottocento, figlia di nobili dell’epoca,
Marietta Cianciolo.
Si
lascia talmente coinvolgere da quest’incantesimo, da effettuare minuziose
ricerche sull’identità e sulla vita passata di lei. Arriverà a rasentare la
follia non riuscendo più a distinguere il confine che divide il reale
dall’immaginario. Farà rinascere dalla morte la ragazza grazie alla forza
dell’immaginazione e alla sua fervida fantasia, fino a instaurare con lei un
rapporto di profonda amicizia fatta di confidenziali dialoghi di alto spessore
umano e spirituale, colmi di semplicità e tenerezza.
Il
romanzo racchiude citazioni sulla storia di Messina antica con particolare riferimento alle origini del
Cimitero Monumentale e alla genealogia di qualche famiglia nobile messinese
dell’Ottocento.
INTRODUZIONE
Vi
giuro che non so neanch’io il perché abbia scritto questa storia inverosimile,
chissà perché l’ho fatto! chissà chi mi ha ispirato! certo non io stesso, di
questo almeno ne sono sicuro. Quando si è troppo soli o ci si sente del tutto
incompresi, si può arrivare a inventare un’amica immaginaria alla quale poter
confidare i propri sogni, le proprie emozioni, le paure e le speranze di chi sa
di poter dare molto agli altri ma di non essere messo in condizione di poterlo
fare. È un po’ come quando uno parla da solo, e magari arriva al punto perfino
di confondersi, oppure si guarda allo specchio invecchiato di fuori e,
riflesso, si vede bambino di dentro, come se il tempo della giovinezza non
fosse mai trascorso e restasse eterno in sintonia e simbiosi con la propria
anima. Alla cosiddetta “maturità” d’un uomo che è già vecchio senza rendersene
conto, che nel suo cuore ha già sostituito il mondo delle favole con quello dei
soldi e della posizione sociale, io oppongo la meraviglia e lo stupore dei miei
occhi rimasti ancora di bambino, capaci di vedere il mondo come un nuovo gioco,
un magico Natale pieno di luci e palline colorate, di ricreare con la fantasia
l’innocenza e la tenerezza di chi bacia per la prima volta. Se solo potessi,
attraverso le mie poesie o i miei libri, far capire a tutti che è nella
semplicità, nella purezza incontaminata dei sogni, nel far rivivere il bambino
presente in ognuno di noi, che si può trovare la vera felicità, la serenità,
quella luce che ci fa sentire più vicino a Dio in una vita piena di significato
e d’amore. Se solo riuscissi a farmi ascoltare tramite questo libro arrivando
dritto al cuore del lettore, prestandogli i miei occhi, gli farei ammirare
quanta poesia vi è in un fiore che sboccia, in un bimbo che ride, in un raggio
di sole, nel volo di un airone e in mille e mille altre piccole cose quotidiane
della vita che sono state create per noi, affinché ogni uomo possa rinascere
ogni volta, sentendosi in armonia con l’universo, parte di esso, ritrovando la
propria dimensione. Se solo l’uomo riuscisse a guardarsi dentro e ad aprirsi
all’infinito che lo circonda, scoprirebbe quanto sia bello il mondo, quanto sia
favolosa la natura.
La
bellezza, la felicità è tutta intorno a noi, nei nostri sensi, nell’aria che
respiriamo, in ogni minuscola particella vivente che pullula di vita e d’amore.
Ogni essere umano, anche il più povero che possa esistere sulla faccia della
terra, è ricco e non sa di esserlo.
Per
tutto questo, ho deciso di scrivere questo libro. Nella figura di una creatura
immaginaria, io proietto tutto me stesso, i miei sogni e le mie speranze, vedo
riflesso Dio, l’azzurro del cielo, il bacio della ragazza che amo, un bambino
che non è mai cresciuto. Questo racconto è per tutti voi che credete ancora
alla magia dei sogni ma soprattutto per chi non crede affinché possa provare a
farlo. È anche per tutti coloro che amano quella meravigliosa e fiabesca
avventura che è la vita che, anche se apparentemente può sembrare triste e
difficile, in realtà è splendida e degna di essere vissuta sempre e in ogni
caso.
In
Marietta, la protagonista del mio romanzo, io proietto ancora tutto il mio
sincero amore verso una vita traboccante di emozioni e di speranze.
Forse
è solo un sogno, lo so, ma non posseggo null’altro, è tutto quello che ho.
Il
romanzo è narrato quasi per intero in prima persona e mi vede protagonista.
Tuttavia
ho preferito usare lo pseudonimo di Manuel. Tutti i nomi e i fatti citati nel
racconto corrispondono a persone realmente vissute e a fatti realmente
accaduti.
L’Autore
COM’ERO. IL MIO STATO D’ANIMO
Avevo 19 anni, sì, solo 19 anni,
l’età più bella, sentivo dire dagli altri; l’età che tutti desidererebbero
avere e magari mantenerla per sempre, a dispetto del tempo. Ma io, io non ero
felice. Era come se quella bellissima età non mi appartenesse, o meglio non
fosse stata mai mia. Se dovessi giudicarmi per com’ero allora, con gli occhi
obiettivi e più maturi di adesso, probabilmente mi verrebbe facile dedurre che
ero completamente immaturo, vittimista, strano e aggiungerei anche un po’
folle, anzi del tutto folle, ma d’una follia che rasenta la creatività, una
follia sinonimo di stranezza, tipica di quelle anime elette, fragili,
eternamente insoddisfatte che identificano nei sogni la loro voglia d’evasione,
il desiderio, anzi il bisogno, di protendersi verso l’agognata libertà
assoluta, unica àncora di salvezza contro gli abissi del dolore. Continuando a
guardarmi con gli occhi di adesso, devo ammettere che oltre ad essere o voler sembrare
folle, avevo radicata in me sin dalla nascita, una sorta di tristezza senza
guarigione, desolata e abbandonata, senza una motivazione plausibile che la
giustificasse. Una strana tristezza che io, un po’ ingenuamente, ritenevo
potesse essere prerogativa dei geni incompresi e che contribuiva negativamente
a farmi isolare sempre più dai miei coetanei, dai miei genitori, dal mondo che
mi circondava e che appariva ai miei occhi tutto sbagliato. Era una tristezza
che non trovava assolutamente sbocchi perché alimentata sempre e solo dal mio
io, chiusa in un lacerante e ingiustificato pessimismo. Già, devo chiamarlo
proprio così “ingiustificato pessimismo” perché in verità non vi era stato
proprio nulla di così rilevante da poter giustificare un simile stato d’animo.
Nulla la vita mi aveva riservato di così triste e crudele, ad altri,
sicuramente, molto di più. Penso, ad esempio, agli handicappati, ai tanti
malati che scoprono il dolore giorno dopo giorno nelle corsie degli ospedali,
agli emarginati di ogni genere, agli orfani, ai poveri, ai vecchi soli al mondo
abbandonati al loro destino, a chiunque insomma possa aver sperimentato
realmente tutto il male che io pensavo fosse destinato solo a me e a nessun
altro. La cosa che oggi mi sembra più assurda, consisteva nel fatto che io mi
ero proprio crogiolato nella mia stessa tristezza, mi ero quasi chiuso in una
specie di urna di cristallo dove proteggermi dalle insidie del mondo e da tutto
ciò che rappresentava la vita all’esterno e che mi ruotava intorno. Fuggivo dal
mondo e, quel che era peggio, da me stesso. La tristezza era per me diventata
quasi un alibi, un approdo sicuro, un modo di essere nel quale trovare la mia
dimensione più congeniale. Tristezza uguale incomprensione degli altri verso di
me, questo era il mio assurdo binomio che serviva solo per alimentare
maggiormente la mia solitudine. A dire il vero, ho sempre cercato in quel
periodo e in special modo adesso che ho una capacità di analisi migliore, di
scavare nella mia infanzia con la speranza di trovare una risposta a quel mio
inusuale modo di essere e di rapportarmi agli altri, modo che, sia pure in
minuscola parte, mi porto ancora adesso, nonostante i miei 40 anni superati.
Ma, nonostante mi sforzi minuziosamente a trovare qualche indizio utile alla
causa, qualunque giusta e valida prova, non riesco a riscontrare nulla di
realmente importante. Sento dire che ogni essere umano sia il prodotto di un
insieme di fattori ereditari che s’intersecano tra loro, di una infinità di
condizionamenti ambientali, probabilmente questo è anche vero, ma io non riesco
a scorgere proprio nessuno dal quale possa aver ereditato un carattere così
particolare. Forse l’esser venuto al mondo dopo ben 16 anni dalla nascita di
mia sorella e da una madre non più giovanissima particolarmente attaccata a me
e troppo apprensiva nei miei confronti, può forse aver generato nella mia
psiche, una certa insicurezza scaturita proprio dal troppo affetto materno. Una
iperprotettività che mi ha impedito di crescere, di spiccare il volo verso
nuovi orizzonti che apparivano ai miei occhi, sconosciuti e temuti.
Siamo sempre però nel campo delle
ipotesi perché io, in realtà, testardo e un po’ narcisista oltre che
esibizionista, facevo sempre di testa mia, non prendendo troppo in
considerazione i consigli e gli insegnamenti di mia madre, come quelli, del
resto, di chiunque altro. Tutto questo però non lo facevo per ribellione o per
il semplice e banale gusto di trasgredire, ma perché ritenevo, e ne sono
convinto anche adesso, che sia giusto fare ognuno le proprie esperienze, magari
sbagliando per poi correggersi da soli senza commettere mai più, possibilmente,
gli stessi errori. Solo così si può crescere e maturare, imparando sulla
propria pelle, a proprie spese. Ho sempre pensato che nella vita bisogna
appoggiarsi soprattutto a se stessi e alle proprie forze perché non esiste
nessuno al mondo all’infuori di noi stessi, capace di capirci e volerci bene
più di quanto possiamo volercene noi. Non bisogna ovviamente cadere
nell’eccesso, ossia cedere all’egoismo, ma dosare il tutto con intelligenza ed
equilibrio. Solo chi ama veramente se stesso, può poi trasferire parte di
questo amore al prossimo. Questa è un po’ una mia legge, un mio modo di pensare
che non pretende assolutamente di essere condiviso o di valere per tutti.
Anche il mio rapporto con la
religione e con la fede, era un po’ vacillante in quel periodo, non solido come
avrebbe dovuto essere. Sì, credevo in linea teorica all’esistenza di un Dio,
anche perché cresciuto in una famiglia di forte ispirazione cattolica.
Conoscevo per averli sentiti
nell’aria, anche inconsapevolmente, gli insegnamenti del Vangelo, i dogmi ai
quali prestare solenne fedeltà. Ma, al momento estremo del bisogno, più che
alla provvidenza divina, mi rivolgevo alle mie stesse forze, alla mia volontà,
alla voglia di reagire, di non lasciarmi andare. Tuttavia possedevo dentro, una
innata bontà che mi impediva persino di uccidere uno scarafaggio, per non
provare poi il rimorso di aver distrutto una vita che, anche se apparentemente
insignificante, rappresentava lo stesso una vita e come tale esigeva il massimo
rispetto. Incapace di fare del male a chiunque anche verso chi ne faceva a me,
non porgevo l’altra guancia, ma non reagivo, allontanandomi da lui senza
meditare vendette o provare rancore di nessun tipo. Avevo pochi amici a causa
del mio carattere schivo e solitario ma non ho mai avuto nemici. Mi facevo
voler bene ed ero sempre pronto ad ascoltare chiunque senza pregiudizi di
nessun tipo. Non riuscivo proprio a dar dispiaceri a nessuno se non a me
stesso. Non trovavo giusto fare agli altri quello che non avrei voluto fosse
fatto a me. Il mio era un ragionamento logico, elementare, non scaturito o
influenzato dall’insegnamento cristiano, anche se poi, in pratica, coincideva perfettamente.
La cosa più curiosa di allora, consisteva nel fatto di essere arrivato
addirittura a mitizzare la sofferenza e, di conseguenza, anche la mia
tristezza.
Pensavo fosse quasi un dono divino
che sarebbe servito all’uomo, ma non per redimerlo scontando i peccati terreni
in prospettiva d’una redenzione futura, ma bensì per esternare la propria
sensibilità artistica. Già, avevo creato un altro assurdo binomio che
consideravo allora inscindibile e che tuttora sono convinto che possa esistere,
sofferenza uguale arte. Soltanto soffrendo, pensavo, è possibile diventare
sensibili e di conseguenza artisti. Più si soffre e maggiormente si matura, si
alimenta l’ispirazione artistica.
Non è un caso che le mie poesie più
belle, o almeno quelle alle quali sono più legato, le più vere, le più sincere
siano nate da una sorgente che esprimeva la tristezza d’un momento. Non so
perché, ma ancor oggi, non riesco a scrivere nulla nell’istante in cui sento di
essere felice o sereno per meglio dire, perché “felicità” è una parola troppo
grande. Un artista, in genere, compone quando sente dentro il bisogno di
comunicare qualcosa agli altri, una propria intima emozione, che è tanto più
forte ed intensa, quanto più ombra ha nel cuore. Un uomo cerca l’acqua solo
quando ha tanta sete. Non so perché ma è così.
Confesso però che mi sarebbe piaciuto
e che mi piacerebbe ancora, poter scrivere in un momento di gioia, proprio per
sentirmi altruista e aiutare così il mio prossimo, trasferendogli tramite
l’arte, un po’ della mia letizia. Purché lo voglia chiunque, non solo artista,
nella vita di tutti i giorni, può regalare un sorriso a chi ne ha veramente
bisogno che, per quanto piccolo possa sembrare agli occhi di chi lo offre, è
sempre meravigliosamente grande e importante per chi lo riceve.
Ritornando a guardarmi all’età di 19
anni, continuo a non capire ancora il motivo per il quale preferissi la
solitudine dei cimiteri, alle compagnie e ai divertimenti giovani.
Non mi rendo conto del perché di
tutte le fobie d’allora, delle mie ansie implacabili, delle mie paure
ossessive, della mia in un certo senso depressione, tutti problemi che,
fortunatamente, ho risolto in età adulta tranne qualche minuscolo residuo
facilmente domabile, ma che allora, sembravano per me inguaribili, autentici drammi.
È strano però il fatto che io, cantore follemente innamorato della bellezza
dell’adolescenza e più in generale della giovinezza, debba trovare un po’ di
equilibrio e di serenità, soltanto oggi che ho 40 anni, trovo tutto questo così
paradossale e non mi oriento più. Se solo avessi avuto, in quel periodo, lo
stesso coraggio che ho adesso di prendere di petto tutti i miei problemi, di
affrontarli con coraggio, faccia a faccia, senza partire battuto ma con la
consapevolezza di poterli vincere, di poter dire loro: “Non mi fate più paura,
io sono più forte di voi!”
Se solo avessi avuto allora
l’intelligenza, la maturità, la saggezza che mi ritrovo oggi e soprattutto la
forza di credere nella mia volontà, tutto sarebbe stato diverso e forse non
avrei avuto nemmeno l’ispirazione per scrivere la storia che sto per
raccontarvi. Ma, nella vita, nulla accade per caso, anche se in apparenza può
sembrare senza spiegazione. Sarei stato un ragazzo praticamente normale come
tanti altri, anche se, in ogni caso, la normalità è sempre relativa e riduttiva
se per normalità si vuole intendere massificazione, fare cioè quello che tutti
fanno, che gli altri vorrebbero che tu facessi. Bisognerebbe sempre, in tutti i
modi possibili, battersi per difendere il proprio modo di esprimersi e di
essere, senza assurde e incomprensibili maschere imposte da una società
troppo spesso stereotipata e insensibile
alle esigenze del singolo. E pensare che ogni essere umano è un esperimento di
vita, unico e irripetibile e che ha quindi tutto il diritto di essere uno
spirito libero, al di fuori di schemi preconfezionati, tradizioni o
condizionamenti di nessun tipo, felice di manifestare la propria identità che
si diversifica da quella degli altri ma, allo stesso tempo, si integra con
l’altrui libertà, rendendo la vita ancora più bella perché varia, tollerante,
colorata. Uno strano ragazzo, sicuramente, molto particolare, fuori dal comune,
ero io. Magro, con i capelli lunghi, vestito in maniera trasandata, senza
seguire nessuna moda in voga in quel periodo. Un look schizofrenico, nel senso
di liberissimo, contraddittorio, fuori da ogni regola o criterio di
abbigliamento, senza il minimo abbinamento di colori che potesse dare un certo
gusto estetico all’occhio. Alternavo assurdi pantaloni a quadretti tipici da
clown, a strane e lunghe giacche rosa. A volte vestivo completamente di nero
con dei spettrali occhiali scuri, accentuando così la mia magrezza che era per
me una specie di complesso, a tal punto da impedirmi di mettermi in costume da
bagno pur adorando il mare. Portavo sempre dei fazzoletti intorno al collo, di
vario colore che mi procuravano, e ne ero molto orgoglioso, un’aria misteriosa
e un po’ tenebrosa ma, al tempo stesso, potevo dare l’impressione di un bambino
diventato adolescente troppo in fretta che suscitava immediata tenerezza e un
istinto quasi materno di protezione. Non ero certamente brutto, anzi
tutt’altro. Ero forse simpatico e persino carino ma non facevo nulla per
evidenziare queste mie qualità, anzi, facevo del tutto per tenerle nascoste. Il
colore chiaro dei miei occhi, ad esempio, che spiccava con la mia carnagione
abbronzata e col castano dei miei capelli, veniva quasi sempre nascosto da
occhiali scuri, come già detto, e il vestiario poteva sembrare più da zingaro
anziché quello di un ragazzo che vuol farsi ammirare in armonia con la propria
giovane età. Facevo insomma, forse in parte anche involontariamente, di tutto
per sembrare più inguardabile di quanto in realtà non lo fossi, presentandomi
agli altri come mai e poi mai avrei dovuto apparire. La dolcezza quasi
infantile del mio viso, i miei lineamenti oserei dire quasi efebici, erano
continuamente mortificati e messi in discussione da un’espressione che io, ad
arte, facevo diventare da duro oppure di chi sembrava perso nel vuoto che
contrastava nettamente con la mia disarmante sensibilità e soprattutto con
l’età che dimostravo. Avevo infatti la grande fortuna che ho anche adesso, di
sembrare un paio d’anni più piccolo rispetto alla mia vera età. Potevo
dimostrare sì e no 14 o al massimo 15 anni. Guardandomi per ore allo specchio,
a volte mi piacevo, altre invece mi detestavo trovandomi tutti i difetti
possibili, fino al punto di rompere gli specchi. Era innata in me una certa
timidezza che ancora un po’ conservo e che si manifestava nella mia quasi
impossibilità di fissare a lungo negli occhi qualunque interlocutore, specie se
si trattasse di una ragazza. I miei occhi un po’ impauriti, spesso si
abbassavano di colpo, come per cercare un nascondiglio nel quale potersi
rifugiare. Già, le ragazze. Con loro il mio è stato sempre un rapporto
particolare. Anche in questo campo, il mio grande amore per il sogno veniva a
galla. trasformando la realtà in immaginazione. Vivevo infatti amori immaginari
e platonici. Le ragazze che solo io sapevo di amare, esistevano davvero, se non
altro, e non come la protagonista defunta di questo libro, ma non sapevano mai
nulla del mio segreto amore nei loro confronti. Io, fra l’altro, sia per
timidezza, sia per la paura di guastare il sogno, non avrei mai avuto il
coraggio di confessarlo. Questo mio infantile e patologico modo di concepire
l’amore, in piccola parte mi è rimasto ancora oggi nella mia personalità di
adulto. Infatti forse ora non cerco una ragazza o una donna specifica in quanto
tale, ma amo l’idea dell’amore, della compagna che non si trova, che non
esiste, quasi sublimata in angelo, segno d’una chiara mancanza di
predisposizione e di adattamento alla vita reale. Sensibilissimo com’ero, lo
sono ancora adesso, consapevole di essere diverso dai miei coetanei ma mai
reputandomi superiore a loro, cercavo di attirare la mia attenzione presso le
ragazze, adottando un comportamento inusuale, a dir poco strano se non folle,
ma ottenevo sempre inevitabilmente l’effetto contrario e diventavo ridicolo ai
loro occhi. Non avevo la maturità e la furbizia necessarie per capire che, per
avere successo con l’altro sesso, per essere apprezzati, bisogna semplicemente
essere se stessi. Andava a finire così che mi sentissi sempre più solo,
giudicando tutte le ragazze, nessuna esclusa, vuote, superficiali e
materialiste, prede di facili ideologie alla moda e incapaci di comprendere la
mia interiorità. Non capivo che l’unico che non funzionava in quel contesto,
ero proprio io, io e soltanto io. Ricordo che spesso dedicavo loro poesie, già
le poesie. La mia passione per lo scrivere
ha radici lontanissime nel tempo, risale agli albori della mia vita, fa
parte di me. A volte mi viene il dubbio che scrivessi già dalla pancia di mia
madre. Ero e sono comunque veramente contento di questa mia inclinazione, guai
se non ci fosse. Mi ha aiutato moltissimo in quel periodo e mi è molto utile
anche adesso. È l’unica cosa che so fare, una valvola di sfogo, un modo per
canalizzare le mie energie, quasi una confessione, un aprirmi con me stesso e
verso gli altri. È un bene quando le mie frustrazioni, le mie nevrosi, anziché
uscire sotto forma di malattie, vengon fuori tradotte in espressioni
artistiche. Guai se non scrivessi più, sarebbe come ammettere di essere morto.
Credo di avere delle qualità, del talento. È un vero peccato che non se ne sia
accorto proprio nessuno, che non mi abbiano mai dato fiducia credendo in me.
Continuando a viaggiare sulla mia ipotetica macchina del tempo e tornando a
ritroso con la memoria, mi vedo davvero stupido all’età di 19 anni, troppo
immaturo e troppo bambino. 19 anni che potevano benissimo essere 30, 40, 50, 80
in base alla mia sensibilità artistica ma che, allo stesso tempo, potevano
sembrare 12, 10, 8 per il mio modo di porgermi verso me stesso e verso gli
altri. Non capivo la cosa più importante ed elementare di tutte le conoscenze
in genere e cioè che la vera felicità, la si può trovare nelle piccole cose
quotidiane della vita e che sgorga spontanea dentro di noi. Ma non ero l’unico
a non aver capito questa semplice verità. Quanta gente importante nel corso
della storia non l’ha compresa! Dottori, scienziati, filosofi, poeti,
insegnanti sono magari in grado di recitare la Divina Commedia a memoria o
tutti i classici della letteratura, ma poi non sono capaci di distinguere il
ramo da una foglia. Quando si è troppo impegnati a pensare in grande, ci si
dimentica completamente delle piccole cose della vita che sono le più
importanti, le più vere, che fanno parte di noi, che vivono con noi e intorno a
noi come piccole sorelle non viste dalla nostra cecità assoluta, non percepite
dalla nostra attenzione e dal nostro cuore tutto assorbito dal marasma d’una
vita materiale. A volte, confesso che vorrei che ogni uomo facesse un piccolo
salto nell’aldilà per scoprire la bellezza della propria spiritualità, per poi
ridiscendere in carne e ossa su questa terra. Solo allora si renderebbe conto
di aver vissuto male, anteponendo la legge della materia a quella dell’anima,
smarrendo del tutto la propria identità, la vera essenza della vita. Ho
ritenuto giusto, cari lettori, fare questa abbondante premessa su com’ero
all’età di 19 anni, non con l’intenzione di annoiarvi anzi qualora questo fosse
avvenuto me ne scuso sentitamente, ma poiché credo sia necessaria per inquadrare
meglio la mia personalità al tempo in cui si svolsero i fatti che sto per
narrarvi, proprio in virtù dell’originalità e della stranezza di tali fatti.
La verità sta proprio nella
considerazione che solo uno strano ragazzo quale io ero all’età di 19 anni,
poteva trovare l’ispirazione per scrivere una storia così assurda ma anche così
coinvolgente.
MESSINA,
INVERNO 1984
Non ricordo con esattezza il giorno
preciso del mese in cui cominciò questa strana storia.
So che tutto ebbe inizio così,
semplicemente, come quelle storie che nascono senza un perché, con quel famoso
detto “C’era una volta” così caro a bambini che lo ascoltavano in dormiveglia,
dalle care voci delle nonne o delle mamme, all’inizio di qualsiasi fiaba. Com’è
lontano quel magico tempo! Le fate sono diventate giochi elettronici. Oggi
tutto è maledettamente cambiato e appare glaciale, freddamente scontato,
terribilmente calcolato. Siamo entrati in un tunnel senza uscita e senza
ritorno, proiettati dal falso progresso verso un mondo futurista, dove persino
il nostro destino risulta scritto in fondo alla memoria d’un computer.
Mass media che dilatano e
condizionano le nostre coscienze, satelliti artificiali sulle nostre teste che
ci spiano minacciando la nostra privacy e ancora pubblicità senza fine che ci
rende tutti visionari martellando il nostro cervello. Nonostante tutto questo,
io sono ancora qui a scrivere seguendo con costanza e coerenza le mie idee di
sempre, annullando, fin quando mi sarà possibile e ne avrò la forza, il nulla
che mi circonda con la forza della mia fantasia, con la bellezza della mia
immaginazione, con la gioia di vedere i miei sogni realizzarsi spontaneamente,
come una magia, senza falsità ed inganni.
Dicevo, quindi, di non ricordare il
giorno esatto, ma posso dirvi con assoluta certezza, che da pochi giorni era
entrato l’anno 1984 e ci trovavamo ovviamente nel mese di gennaio. Ricordo
anche che era una fredda e malinconica mattinata dal clima autunnale. E
tornando a guidare la famosa e già citata macchina del tempo, posso ancora
vedermi così com’ero realmente, mentre camminavo per strada per recarmi, come
tutte le mattine, a scuola.
Potevano essere circa le 8,
considerando che alle 8,30 sarebbe suonata la campanella per entrare in classe.
Non ero vestito troppo male vista la maniera con la quale uscivo in quel
periodo, anche perché, a scuola, dovevo necessariamente presentarmi con un look
adeguato, forse troppo, tale da creare così l’eccesso contrario, cioè quello di
essere perfettamente intonati col vestiario, al luogo nel quale si opera.
Nonostante ciò, avevo sempre nel mio sguardo, quel solito alone di mistero,
quel non so che di velata ed indefinibile malinconia. Avevo piuttosto da
portare, oltre al mio sempre presente fardello di tristezza, un peso materiale
altrettanto consistente, quello dei miei libri che dovevo necessariamente
caricarmi sulle spalle e che servivano più a farmi diventare curvo (alla
Leopardi per intenderci) che per impartirmi una sottocultura nozionistica, una
specie di ignoranza colta. Ho sempre pensato che la vera scuola, te la dà la
vita, la strada dove le cose, giorno per giorno, ti insegnano da sole il loro
nome.
Si usava nella mia classe ma penso
anche in molte altre, per ragioni di convenienza tra compagni di banco,
dividere il numero dei libri esattamente a metà per distribuire in parti uguali
gli immani sforzi. Il mio compagno di banco, Piero, veniva però da un piccolo
paese del messinese, a metà tra la collina e la montagna, Massa San Giorgio, e
quindi, per un atto di dovuta cortesia nei suoi riguardi, è andata a finire che
i libri praticamente li portavo quasi tutti io, abitando peraltro in centro,
non molto lontano dalla scuola. Già, la scuola. Una scuola per ragionieri,
l’Istituto Tecnico Commerciale “Antonio Maria Jaci”. Mi trovavo ormai a
frequentare l’ultimo anno ma mi chiedevo ancora cosa ci facessi io, quasi un
genio dell’italiano, fortemente appassionato alla letteratura e alla filosofia
che sognava ancora ad occhi aperti di diventare professore di Lettere, in una
scuola di ragionieri. Uno dei miei tanti errori nella vita. Mai, mai una volta
in tempo ci si accorge di aver sbagliato, sempre troppo tardi. E così, alternando voti
altissimi nelle materie letterarie, a quelli altrettanto bassi nelle materie
tecniche, senza essere mai stato rimandato o peggio ancora bocciato, continuavo
ad andare avanti lo stesso, tanto ormai si trattava soltanto dell’ultimo anno,
dell’ultimo sacrificio.
In fondo a me piaceva studiare ma
solo quelle materie che più mi prendevano e affascinavano e non certamente
quelle di tecnica o di ragioneria. Del resto, se ognuno sceglie liberamente
nello studio di seguire la strada per la quale si sente più portato, ci sarà
sicuramente un motivo. Io non ho avuto fortuna neanche in questo, o forse non
sono stato abbastanza lungimirante, non ho saputo scegliere. Tutto si svolgeva
a Messina, la mia cara città, una città alla quale ho sempre voluto bene, non
perché mi abbia dato qualcosa di particolare ma perché vi ero nato, era un po’
come se fosse casa mia, se rappresentasse la mia infanzia, alla quale ciascuno
di noi resta sempre, nel corso della vita, particolarmente legato. Forse
sentivo di volerla bene, anche perché, paranoicamente, in solitudine, la
percorrevo sempre in lungo e largo, camminando senza meta, solo con i miei
pensieri e di conseguenza scattava verso di essa, quasi un affetto particolare
che definirei, in un certo senso, familiare, quasi come se stessi girando o
parlando da solo nella mia stanzetta. La sentivo, insomma, appartenermi, essere
mia, trovare posto tra le mie cose più care e intime del cuore, come quei
ricordi più belli a cui si è particolarmente legati e che si custodiscono
gelosamente. Eppure quel giorno Messina, la mia Messina, aveva un aspetto
spettrale, malinconico, quasi come un inspiegabile presagio di quanto sarebbe
poi accaduto. Un’atmosfera che si conciliava perfettamente col mese invernale
di gennaio ma non certamente con la solarità della città che, il più delle
volte, splendeva al sole. Non so dire con esattezza cosa sia accaduto in me
quella mattina, anche perché mai prima d’allora mi era balenata in mente l’idea
di marinare la scuola, per non avere poi rimorsi nei confronti dei miei
genitori e soprattutto di me stesso. Ma quella mattina tutto sembrava diverso,
strano, insolito, incredibilmente nuovo. Dentro di me, qualcosa o qualcuno che
non sapevo chi o cosa fosse, mi stava incitando, fino a proibirmelo
categoricamente, di non recarmi a scuola. Era come se avessi un appuntamento
sconosciuto ma importante, al quale non potevo assolutamente mancare o
rinunciare.
Non avevo più nessun tipo di rimorso,
dubbio o ripensamento nel prendere quella decisione, dovevo non entrare e
basta. Così, cambiai subito direzione e anziché andare verso la scuola, mi
indirizzai alla zona opposta, verso sud. Era come se fossi guidato a distanza
da un comando che non potevo vedere ma che sentivo mi stesse catturando,
muovendo i pulsanti, orientandomi verso di esso. Ero praticamente un automa che
camminava spinto da una forza misteriosa e invisibile, come si trattasse di una
calamita. Persino i miei libri non mi pesavano, erano diventati, di colpo,
leggeri, sembrava non ci fossero più. Camminai così, come un’ombra senza
identità, per circa mezz’ora, con un passo svelto ma che nulla aveva a che fare
con la corsa. Quel mio strano camminare, s’interruppe esattamente davanti alla
porta centrale del Gran Camposanto della mia città. Proprio lì, una voce intima
che neanch’io riuscivo a decifrare e a capire da dove provenisse e cosa volesse
da me, mi obbligò a fermarmi di colpo e, introducendosi nei labirinti della mia
mente, prendendo il totale controllo sulla mia volontà, mi fece varcare la
soglia, spingendomi ad entrarvi dentro.
DENTRO
IL GRAN CAMPOSANTO
Mai prima d’allora avevo avvertito il
bisogno di esplorare la bellezza, se di bellezza si può parlare trattandosi di
un luogo di preghiera che richiama pur sempre alla morte, di un cimitero che
risulta essere il secondo d’Italia come grandezza, e classificabile tra i più
belli in assoluto per la ricchezza di statue, monumenti, sculture e opere
d’arte funeraria che contiene, alcune delle quali antichissime. Soltanto il
giorno dell’anniversario della commemorazione dei defunti, avevo l’abitudine di
visitarlo, come tutti del resto.
Pur essendo, per natura, fortemente attratto
da tutto ciò che è sepolcrale, sempre catturato dalle epigrafi e dalle foto dei
defunti, non avevo mai sentito il bisogno o la necessità di andarci in altre
occasioni. Ma quella mattina, tutto cambiava, ciò che mai sarebbe potuto
succedere, ora accadeva con naturalezza come fosse già scritto, stabilito. Ciò
che prima d’allora poteva considerarsi impossibile, diventava assolutamente
lecito, tangibile.
Fortunatamente non v’era nessun
accompagnamento funebre all’entrata, ma solo una carrozza con un cavallo e un
ragazzo handicappato di circa 30 anni che si divertiva a prendere le ghirlande
dalla stanza dove vigilava il custode del cimitero e a portarle su quel carro.
Poi le riprendeva dal carro e le riportava nuovamente nella stanza del custode,
con un ritmo ripetitivo e monotono, minimale, come un uomo disperatamente solo
che, vittima delle proprie paranoie, non riesce a liberarsene mai, neppure
quando dorme la notte. Il viso dell’handicappato era allegro, spensierato,
assolutamente privo di ogni espressione logica. Eppure io, in quel momento, ero
arrivato al punto di invidiarlo per quella sua strana e inconsapevole
contentezza che aveva dipinta sul viso, completamente all’opposto del mio che
non rideva quasi mai. Mi sembrava quasi un bambino, inconsapevole dei pericoli
della vita, ignaro di cosa lo attende.
Alla guida del carro, vi era un uomo
sulla cinquantina d’anni. Aveva un paio di baffi folti e pittoreschi che si
notavano immediatamente, tipici di certi personaggi siciliani adatti ad essere
ritratti in quei quadretti venduti ai turisti come ricordo. I baffi erano
bianchi, lo stesso colore argento dei capelli, in realtà pochissimi, vi
traspariva infatti un capo quasi calvo. Era intento a fumare una sigaretta più
per noia che per piacere. Di tanto in tanto, con ritmi monotoni e lenti, alzava
la bocca verso il cielo creando anelli di fumo. Non aveva un’espressione
triste, sembrava abituato a quel luogo, piuttosto dava l’impressione di
annoiarsi come colui che aspetta che succeda qualcosa da un momento all’altro,
che possa spezzare di colpo l’opprimente monotonia, anche l’arrivo della morte,
sarebbe già qualcosa di nuovo, di diverso. Il cavallo, invece, al contrario
dell’uomo, mostrava un’espressione profondamente triste, sommessa, rassegnata.
Quasi come capisse e partecipasse all’atmosfera del luogo, muoveva uno zoccolo,
poi l’altro, quindi rimaneva immobile come in attesa e poi riprendeva
nuovamente a muoversi con ritmi lenti ma perfettamente intonati, come il
direttore d’orchestra d’una litania funebre. Gli occhi dell’animale, coperti e
bassi, sembravano impenetrabili, persi nel vuoto. Il guidatore del carro, ogni
tanto volgeva lo sguardo sul quel povero ragazzo handicappato e in quei momenti
pareva più umano, meno assente. Ci fu un attimo, ma fu solo un momento, in cui
i nostri occhi s’incontrarono. Tuttavia fu un tempo sufficiente per farci
apparire strani l’uno agli occhi dell’altro. Lui si stava chiedendo sicuramente
cosa ci facesse un ragazzo con i libri di scuola al cimitero di mattina ed io,
a mia volta, mi domandavo come facesse un uomo maturo a rimanere così calmo,
così tranquillo in un luogo che infondeva tristezza. In quei momenti, pur nella
banalità di quelle considerazioni, paradossalmente, la vita mi sembrò più
bella, proprio perché piena di situazioni strane ed imprevedibili, degna di
essere vissuta fino in fondo. Era avvenuto l’incontro occasionale di due età
così diverse l’una dall’altra, di due modi di essere e di pensare così
difformi, almeno in apparenza, era la vita stessa che ai miei occhi si faceva
apprezzare con la sua varietà, capace di apparire triste e ironica nello stesso
frangente. Il guidatore del carro, il ragazzo handicappato, io stesso che mi
trovavo lì anziché a scuola, il cavallo più umano dell’uomo, tutto pareva
diventare di colpo favola e noi eravamo trasformati in attori, inconsapevoli
protagonisti di una recita strana, ma affascinante, piccoli pezzi di un immenso
e bellissimo mosaico che è l’umanità intera con le sue sofferenze, le sue
eterne contraddizioni, le sue stranezze, ricca del suo scibile umano,
fotografia di un mondo grigio ma che per magia può diventare a colori. Furono
tutte considerazioni che contribuirono a regalarmi un pizzico di gioia in quel
luogo triste, ma fu solo effimera e di breve durata, come una goccia d’acqua
tiepida che, cadendo per sbaglio dentro un bicchiere d’acqua gelida, dà solo
l’illusione di riscaldarla, non riuscendo a mitigare il ghiaccio che v’è
dentro. Ben presto, infatti, ritornai in sintonia con l’atmosfera di quel luogo
e, d’indole malinconica e facilmente orientato alla tristezza quale io sono, mi
venne subito in mente l’idea di fare un confronto, quasi un parallelismo, tra
l’angoscia del mio animo e l’aria di morte che si respirava lì dentro, aria che
avvolgeva ogni cosa di quel luogo anche quell’esile farfalla che sperduta
v’entra dentro, così per caso, perde i suoi colori rubati all’arcobaleno e in
breve muore, riposandosi, non uscendone più.
Dovevo però riconoscere e ammettere
che quel posto era anche particolarmente adatto a suscitarmi pensieri profondi,
a sviluppare in me una introspettiva meditazione, specie sulla caducità della
vita terrena, era capace persino a ispirarmi su tematiche consone al mio stato
d’animo. In particolare, la mia attenzione fu richiamata come un flash da una
scritta posta subito dopo l’entrata, quasi di fronte alla stanza del custode.
Erano parole di color nero vistoso incise su un marmo bianco, virgolettate che
dicevano: “Fummo come voi, sarete come noi”. Anche questa lettura contribuì a
farmi meditare ulteriormente. La reputai subito significativa, perfettamente
corrispondente al destino dell’uomo, rivelava una cruda e amara verità per chi
non avesse il dono della fede. Se l’uomo ponesse al centro dei propri pensieri
l’idea della morte così come ho sempre fatto io sin da bambino, non riuscirebbe
più a vivere tranquillo conoscerebbe la paura, ma sarebbe sicuramente meno
materialista e meno egoista. Se poi dovesse non credere in Dio, allora sarebbe
proprio un dramma senza consolazione e vana risulterebbe la parola alla
catastrofe dell’anima. Sarebbe la morte, il nulla eterno, l’annientamento
totale, definitivo. L’uomo messo completamente a nudo, spogliato da ogni
sciocca vanità, si troverebbe con le spalle al muro e la parola fine davanti,
sull’orlo del baratro e si estinguerebbe così, nel riposante approdo d’un
obitorio. Era quella mattina una giornata non festiva ed io notavo che al
cimitero vi era pochissima gente. Questo fatto però non toglieva la mestizia a
quel luogo, ma anzi lo rendeva ancora più solitario e abbandonato.
Questo scenario di morte che lì
dentro si ripeteva ogni giorno, ogni ora, forse anche ogni minuto, era qualcosa
che infondeva nell’animo un non so che di profondamente sommesso che
riconduceva inequivocabilmente alla pace, al silenzio. Quella paura iniziale
che avevo avvertito non appena entrato al cimitero, più per il fatto insolito
di trovarmi lì che per un vero e proprio timore, di colpo, svanì ed io, come se
fossi ormai preparato al peggio, mi sentivo come quel bambino che, osservando l’acqua
gelida del mare, decide di tuffarsi improvvisamente, per non sentire più freddo
poi, quando l’onda lo può travolgere e lui meno se lo aspetta.
A questo punto, cari lettori, per
esprimervi meglio le mie sensazioni, ho inserito nel libro una mia poesia
scritta proprio in quel momento. Se il lettore riuscirà a cogliere e a provare
le stesse emozioni avvertite dal poeta, il compito di chi scrive si è
realizzato e l’autore può ritenersi sodisfatto. Io mi auguro che ciò si
verifichi attraverso la lettura di questi miei versi.
MORTE SOLITARIA IN UN CIMITERO DESERTO
Odore
di morte, ricordi segnati da croci,
paura
angosciosa, solitudine senza fine,
tristezza
cupa, silenzio assopito,
pianti
accorati, rosario di dolore.
Lumicini
ardono, crisantemi ornano le tombe,
fotografie
di gente che non è più,
ombre
vaghe di cipressi,
aria
che trema di fiamme e di preghiere,
io
che diverrò cenere, sarò ombra di nulla,
niente
rimarrà di me:
e
quale conforto potrò avere,
perduto
tra volti sbiaditi di fotografie d’epoca,
dagli
occhi tristi dei posteri?
Una
bimba inginocchiata su una tomba,
col
cuoricino infranto e gli occhi che s’apron a stento,
unisce
le sue labbra e per due volte le dischiude
supplica
e singhiozza un nome santo,
il
nome della sua mamma.
Un
angelo sceso dal cielo
su
lei schiude le ali,
e
non visto,
nelle
mani raccoglie quelle stille viventi per il suo Signore.
Io,
smarrito, da solo,
come
un uccellino spaurito,
vado
per le vie di un cimitero deserto.
Con
la mente nel buio
cerco
la mia tomba.
Quì
dentro tutti mi somigliano
loro
morti davvero, io defunto dentro,
con
i morti ci so stare.
Io
muoio pian piano così
nel
triste rosario delle cose che non han ritorno
ma
tutto rimarrà com’era,
la
mia vita è inutile,
nessuno
mi ricorderà,
nessuno
s’accorgerà che sono andato via.
Io
solo nella vita,
io
solo con la morte addosso.
Tomba
abbandonata in un angolo oscuro,
faccia
sbiadita dal pianto,
occhi
già ciechi nel buio,
rughe
sul mio viso ancora giovane.
Anima
mia stanca, ricordi che non avuto mai,
sogni
svaniti nel nulla, speranza affievolita dal tempo,
amore
che non mi riscalda più, giovinezza che non è più mia,
morte
che mi viaggia accanto.
Questo
son io, altre parole non servono.
Eppure
la voglia di gridare,
di
ridere forte, di spaventare la morte,
c’è
ancora dentro me.
Eppure
sono figlio della luce, brillo sotto il sole,
ho
ali per volare, un cuore per amare,
una
mano tesa ancora c’è,
ma
il mio sangue è fragile per vivere, troppo fragile!
getto
via l’acqua pur assetato di vita
e
chissà, forse qualcuno mi capirà,
mi
darà il suo sorriso, mi salverà.
No,
il buio, no!
Ma
poi torno in grembo all’eterno destino.
Il
tempo è crudele con me,
mi
strappa via dalle cose che sentivo più mie.
La
vita è una corsa inarrestabile,
gli
anni scivoleranno su me ed io non potrò più fermarli,
so
bene che soffrirò, invecchierò,
piangerò
tanto, morirò.
Aspetterò
in silenzio,
questo
tempo nemico della bellezza sciuperà il mio corpo,
trascinerà
via la mia ultima fiamma,
disperderà
ogni mia speranza,
qualcun
altro la raccoglierà.
Tutto
fugge e va via veloce portando via anche me
ed
io mi accorgo che non mi resta niente,
forse
solo una lacrima perduta
in
fondo al mio cuore,
forse
solo il bene che ho dentro
che
mi fa amare di più.
Ed
io sto male
e
piango in silenzio nel buio della notte,
nascondo
nel pianto la mia poesia.
Signore,
ho
un vuoto dentro
e
in questo vuoto non ci sei tu,
dammi
la forza di supplicarti ancora,
di
chiederti amore.
Non
desidero successi e ricchezze terrene, solo la tua presenza in me.
Le
mie parole in una preghiera,
volano
in cielo
e
fanno piangere Dio.
Signore,
ma come faccio ad essere così cieco
tu
sei davanti a me
ed
io continuo a dirti “non ti vedo”.
Ho
perso tutto ma posso ricominciare con te ritrovando me stesso.
LUNGO LE VIE DEL CIMITERO
Con questi pensieri, completamente
assorto nel silenzio e nella meditazione, percorrevo le vie del cimitero. D’un
tratto, uno scossone intimo, simile a quello che mi aveva spinto a recarmi fin
lì, mi elettrizzò nuovamente e più forte di prima, salendo sin dal profondo del
mio io.
Quella solita voce vaga ed
indefinita, tornò a farsi sentire in me e a dirigere i miei passi che poco
prima erano incerti e senza una direzione ben precisa. Camminai parecchio,
senza mai fermarmi e sempre salendo, attraverso curve, strade larghe e strette
che si alternavano tra loro, che giravano e poi salivano ancora, sembrava un
labirinto, una salita senza fine. Man mano che la strada procedeva verso
l’alto, il tempo si mostrava sempre più brutto, minacciava la pioggia. Il vento
che nella mia città non manca quasi mai, ora sibilava tra le tombe, sembrava il
flebile lamento delle anime dei defunti. Soffiava spingendo le foglie cadute
per terra dagli alberi che ondeggiavano qua e là, leggere come piume, era la
danza della malinconia, la poesia delle solitudini, dell’inane, del nulla.
S’insinuava prepotente fra i cipressi, alberi silenziosi più dei morti. Il
vento lo sentivo dappertutto, echeggiava fin dentro le mie ossa, regnava nelle
mie vene mischiandosi con il mio sangue, unendosi col mio respiro. Lo percepivo
in ogni alito di vita, in ogni particella d’aria, perfino sulle mie labbra,
fredde e gelide come se baciassi la bocca d’un cadavere. Ogni tanto si udiva
dall’alto il canto di qualche uccello sparuto, il rumore d’un paio d’ali, ma si
interrompevano di colpo in un silenzio tombale, assoluto, come per una forma di
insolito rispetto a quel clima che non era rivolto al canto ma all’elegia più
sommessa, più cheta. Le nuvole dalle forme più bizzarre ed inquietanti,
giravano sopra la mia testa, il cielo diventava sempre più scuro, pauroso ma
non sembrava avesse la forza né la voglia di piangere le sue lacrime di
pioggia. Ma anche se l’avesse fatto, io avrei continuato imperterrito il mio
cammino, avrei portato a termine la mia missione. La pioggia non mi avrebbe
bagnato, non mi avrebbe fermato. Com’era lontana la mia Messina solare! Le
giornate estive, le spiagge, i primi raggi del mattino. Tutto riconduceva al
nero, alla malinconia, al mistero. Non avevo più neanche la possibilità di
riflettere sul motivo per il quale un ragazzo di 19 anni si trovasse lì, e non
davanti alla cattedra, in mezzo ai suoi compagni di classe, per fare quello che
era giusto e logico fare. Ero intento, quasi in trance, a seguire la voce che
mi esortava a proseguire il mio strano viaggio, spingendomi oltre il limite,
oltre quella barriera che divide quello che noi esseri terreni poveri fantocci
di creta chiamiamo reale, dall’irrazionale, dal soprannaturale, da ciò che vive
da sempre intorno a noi, nei nostri sensi, ma che non percepiamo. Un mondo
totalmente sconosciuto che per adesso, rinchiusi in questa limitata e
circoscritta dimensione, noi non possiamo vedere ma che esiste, è soltanto
invisibile ai nostri occhi, come qualcosa che non si fa mai toccare ma che c’è
e ci sarà sempre. Man mano che salivo, la città appariva sempre più lontana e
irraggiungibile, mentre chi mi stava aspettando da tempo, sembrava sempre più
vicina. Mi staccavo dal mondo dei vivi per avvicinarmi a quello dei morti,
conseguenza assolutamente indispensabile, abbandonare l’umano per essere
tutt’uno col soprannaturale. Il mare e la costa calabra che prima
s’intravedevano di rado, ora sparivano del tutto, eclissati interamente dai cipressi
che parevano fantasmi danzanti, mostri giganteschi. Mi trovavo in una
dimensione senza età, il mio orologio con le sue lancette ferme, statiche,
pareva disegnato, per niente reale. Non conoscevo più lo scorrere del tempo.
La giovinezza era vecchiaia e la
vecchiaia tornava ad essere giovinezza. Regnava l’armonia del silenzio come un
Dio della quiete, disturbato solo dai battiti del mio cuore che acceleravano
via via che mi avvicinavo alla meta ma era bello ed emozionante anche in quel
modo, era magico, era folle. E pensare che laggiù, coperta dagli alberi, doveva
pur esserci ancora Messina, caotica e frenetica come tutte le mattine, con i
suoi mercati, i suoi negozi, la sua gente che si riversava per le strade, ma
tutto questo a me sembrava inconsistente, insignificante, totalmente estraneo,
superfluo. Era mattina ma poteva essere benissimo sera, notte. Era inverno ma
poteva essere primavera per la speranzosa attesa d’un’avventura indimenticabile
che stavo per vivere in prima persona e da solo. In fondo ero solo un ragazzo
strano e solitario, ma in quel momento ero immortale, senza età, quasi
prescelto da una forza misteriosa e sconosciuta ad essere l’attore principale
d’un film senza finale, d’un gioco senza spiegazione, d’un incontro senza
precedenti, di una storia alla quale, anche se avessi provato a raccontare,
nessuno avrebbe mai creduto. Ma ecco che ora, cominciavano a crollare dal cielo
le prime goccioline d’acqua che restavano tali senza mai divenire temporale.
Avevano il solo compito di rendere l’atmosfera ancora più coinvolgente,magica,
inquietante, celestiale. Erano sorelline gemelle, piccoli angioletti che
cadevano dal cielo giù verso la terra come finissime particelle di polvere di
stelle. Piccoli angeli sotto forma di acqua che cantavano con le loro voci di
bambine la loro sinfonia, per me e soltanto per me,mandate apposta da chi mi
stava aspettando in segno di festa, per creare una dolce accoglienza. Mi
accarezzavano i capelli, il viso, le mani, dappertutto. Continuavano a cadere
dal cielo senza pausa, danzavano, sperimentavano la terra. Ma fra la terra e il
cielo, era più bello il cielo, e così preferivano tornare indietro, lassù, da
dove erano partite pochi istanti prima, proprio come quei bambini piccolissimi
che nascono su questa terra e muoiono subito dopo, magari anche perché una
madre non li vuol far nascere qui e a loro non resta che tornare in cielo,
ritornando ad essere angeli, sostituendo il bacio non dato dalla mamma con un
altro paradiso, molto più bello, vero, eterno. Tutto questo accadeva solo a me
e non so spiegarmi tuttora il perché. Proprio a me che non avevo nulla di
speciale rispetto agli altri ragazzi della mia età. Anzi, a pensarci bene,
qualcosa in più l’avevo da sempre. Come ho fatto a non pensarci prima?
Avevo qualcosa di grande, di
estremamente importante e vitale, di immenso. Qualcosa capace di far volare
anche chi non ha mai avuto ali, capace di rendere ricchi pur avendo solo una
capanna. Qualcosa che Dio ha creato per gli uomini ma che nessuno di loro
prende più in considerazione, schiavo della materia e dei problemi pratici
quotidiani della vita. Quel qualcosa che avevo in più e che ancor oggi sento di
possedere, è la grande voglia di sognare che invade la realtà e la fa scoppiare
da tutte le parti. Ma soprattutto la volontà e il desiderio di credere ai miei
sogni. Soltanto io, infatti, potevo credere alla storia che vi sto raccontando.
Ma sono sicuro che esistono ancora su questa terra, esseri simili a me. E chi
sono? Sono loro: gli artisti, gli ubriachi, i bambini,gli acrobati, i
saltimbanchi, i protagonisti delle fiabe principesse ed animali parlanti, tutti
angeli incompresi caduti su questa terra per sbaglio o per fortuna, capaci di
cogliere il vero senso della vita, l’essenza dell’anima. È l’umanità a colori, la
vita che ridiventa sogno, l’uomo che dà la mano a Dio, è la luce che non si
spegne più.
VERSO IL CONVENTINO
Non so per quanto camminai avendo
perso completamente la cognizione del tempo né dove arrivai non avendo neanche
quella dello spazio, era come se fossi in zona zero, in terra di nessuno. La
mia attenzione però divenne improvvisamente vigile non appena mi trovai a
percorrere una strada totalmente diversa da quelle che avevo attraversato in
precedenza. L’asfalto, infatti, cessò di colpo e la strada si restrinse
notevolmente sino a divenire una stradina dal fondo di roccia e fatta di sassi
ma continuava ad essere percorribile lo stesso, capace di far entrare sì e no 4
o 5 persone disposte a fianco l’una dell’altra. Contemporaneamente anche le
tombe apparivano del tutto diverse, tutte di un altro stile. Le fotografie
diventano via via volti e statue intere di marmo. Erano autentici capolavori di
scultura raffiguranti gente lontanissima dai giorni attuali, chiaramente di
un’altra epoca, di inequivocabile fisionomia ottocentesca. Anche l’atmosfera
che si respirava era totalmente nuova, anche se paradossalmente antica,
inevitabilmente trasformata da ciò che oggettivamente si vedeva. Era come se di
colpo il tempo avesse deciso di fermarsi e tornare indietro di oltre cento
anni. Non vi era più nulla ormai del tempo attuale, tutto parlava del passato,
dell’Ottocento.
Io non avvertivo più niente intorno a
me né il vento né la pioggia né il freddo. Vivevo immerso in una condizione più
spirituale che fisica, magica più che mai, completamente estraniato, corpo ed
anima, dal mondo reale, ormai del tutto rapito da quello circostante. Mi
trovavo in un luogo sconosciuto, quasi mistico,
che sembrava creato per i poeti e per la contemplazione. Il mondo
moderno, quello che era stato fino a poco tempo fa il mio mondo, era ormai
lontanissimo, sparito del tutto ed io non lo percepivo e ricordavo più.
L’effetto che quel luogo aveva su di me, valeva assai di più di quella che era
stata la mia vita di sempre, ormai lunghe distanze mi separavano da essa.
Sognavo ad occhi aperti mille avventure, mi arrivava l’eco di mille sirene, ero
l’eroe di mille favole. Il cuore non mi chiedeva di tornare alla mia base ma mi
esortava a restare lì.
Ero ormai altissimo, quasi in cima,
nella parte più alta ed antica del cimitero di Messina. La salita era quasi
terminata. Ai lati della stradina, altissime, maestose e sublimi per bellezza e
suggestione, si protendevan fiere le tombe dell’Ottocento. Erano statue di
uomini, donne, vecchi, bambini. Tombe del mio tempo, ormai non ve ne erano più.
Ero completamente circondato da antiche lapidi. La prima immagine che rapisce
la vista di chi si trova a salire lassù, è quella della statua di un bambino di
quell’epoca, di circa otto anni, seduto su una roccia, vestito come un piccolo
marinaretto che par ti guardi e ti dica: “Salve, benvenuti nel regno
dell’Ottocento”. Fa quasi da prologo ad una serie infinita di monumenti, uno
più bello dell’altro, che da quel punto in poi, inondano quella zona del
cimitero, in ogni direzione e da qualunque parte. Immagini di uomini nobili e
donne vestite all’antica si vedono ovunque.
Colpiscono i loro baffi folti e
pittoreschi, la loro strana pettinatura, l’abbigliamento così diverso da quello
del mio tempo. Tutto riportava ad un’altra epoca. Le sensazioni che provavo
erano a dir poco indescrivibili, mi sentivo proiettato indietro nel tempo pur
avendo la mentalità moderna. Di statua in statua, di emozione in emozione,
arrivai in un punto in cui, finalmente, la salita era finita. La salita ma non
certamente il viaggio.
Dovevo ancora conoscere l’entità più
importante e misteriosa, colei che mi aveva trascinato in quel posto contro la
mia volontà, forse avevo visto fin ora solo una minima parte di quanto avrei
dovuto vedere o addirittura non avevo veduto ancora nulla. La salita finiva
proprio davanti all’entrata di una chiesa bellissima e altissima, tutta stile
ottocentesco che io prima di allora non avevo mai vista pur trovandosi nella
mia città. Non mi rimase altro che restare a bocca aperta e quasi senza fiato
la contemplai. Ero arrivato ormai dove sarei dovuto arrivare. Mi trovavo in
quella parte altissima del Cimitero di Messina che oggi si chiama “Cimitero
degli Inglesi” ma che in quel periodo si chiamava semplicemente “Conventino”
dove erano e sono tuttora sepolti, i nobili messinesi vissuti nel secolo
dell’Ottocento. E' un luogo calmo, silenzioso
che ispira timore ma contemporaneamente pace e meditazione: c'è d'averne
paura ma lo si va a cercare.
Ed ora, cari amici lettori, come quel
ciclista che dopo una faticosissima salita, decide di fermarsi un momento per
bere un sorso d’acqua e riprendere fiato, prima di ripartire nuovamente, è
necessario che anch’io mi fermi un momento per darvi delle doverose notizie
storiche che reputo interessanti circa l’origine di questa favolosa chiesa che
è situata nella parte più alta del cimitero della città dello stretto.
A tal proposito, ringrazio tutti
coloro che mi hanno aiutato nelle ricerche fornendomi notizie storiche utili al
racconto. In particolare tutti i custodi e gli addetti alla vigilanza e al
servizio di biblioteche, annali storici ed archivi storici.
STORIA
DELLA PARTE PIÙ ALTA ED ANTICA DEL CIMITERO DI MESSINA
Nella
seconda metà del secolo dell’Ottocento, numerose epidemie contagiosissime,
infestavano la città di Messina come tutto il meridione. Tisi, colera, germi di
tutti i tipi erano a quel tempo tutte malattie incurabili. Il contagio si
diffondeva vertiginosamente, specie nei bambini la mortalità era elevatissima.
Il tasso di vita era spaventosamente basso, infatti oscillava tra i 40 e i 45
anni di età.
A
questo si aggiungano la miseria, la guerra, le scarse condizioni igieniche.
Quindi per giustificate esigenze sanitarie, si sentiva il bisogno e subentrava
anche la necessità di appartare in luoghi, i più solitari possibili, gli
infelici malati. Così gli ospedali si riempirono ma non bastavano e si
dovettero creare posti isolati, tra i quali il Lazzaretto costruito nella zona
del porto, là dove attualmente vi è la Difesa, che raccoglieva tanti bambini
colpiti soprattutto da tisi. Lo spettacolo era pietoso. Grida, urla, pianti,
sputi, dolori. Lì morì, colpita da quella che a quel tempo era una terribile e
incurabile malattia cioè la tisi, la protagonista del mio romanzo. Il posto più
isolato però fu costruito nella parte più alta ed antica del cimitero,
l’attuale Conventino. Lì venne fatta una chiesetta stile ottocentesco,
particolarmente alta. Venivano portati i malati contagiosi come fosse un mini
ospedale. Il posto era alto e difficilmente accessibile, quindi dava una
discreta garanzia contro il contagio. Ma i morti crescevano e quelli che erano
ancora vivi, a contatto con essi, decedevano anche.
Così
quella chiesetta si trasformò da sfortunato ricovero, in luogo dove venivano sepolti
i morenti. Poi col tempo e col cessare delle epidemie, il posto fu abbellito
grazie all’impegno e alla bravura di alcuni scultori messinesi e in particolare
di Antonio Saccà che costruì numerose tombe fra le quali anche quella della
protagonista del romanzo, dando così al luogo un aspetto profondamente
artistico. Vi erano sepolti i nobili messinesi per lasciare ai posteri un
glorioso ricordo delle loro memorabili gesta contro l’oppressione borbonica.
Difficilmente, anzi direi assolutamente, è possibile trovare sepolta gente
comune essendo troppo oneroso poter pagare lapidi davvero imponenti.
Nonostante
la terribile catastrofe del 1908, il cosiddetto Conventino resistette, poi il
resto del cimitero si dovette rifare. Quindi oggi il Conventino si presenta
come la parte più antica del cimitero, la più alta e bella che il tempo non è
riuscito a falciare con la sua potentissima forza distruttiva ed è per noi
messinesi, fonte di orgoglio e di tradizioni veramente superbe e meritevoli,
oltre che un saggio di arte e scultura non indifferenti come vanto per la
città. Infatti è bene ricordare che il Cimitero di Messina risulta essere il
secondo d’Italia per grandezza e trova posto tra i più belli in assoluto, non
solo in Italia. Ed è proprio da quella parte, cioè dal Conventino, che nacque
il Cimitero di Messina. E il Conventino oggi vive imperterrito ma totalmente
nell’abbandono e senza anima viva.
È
un luogo altissimo, calmo, silenzioso che ispira timore ma contemporaneamente
pace e meditazione. C’è d’averne paura ma lo si va a cercare. Molti sono i nomi
illustri che vi sono sepolti ma, per ragioni di tempo, mi limito a non
enunciarli per motivi di non particolarità, essendo tutti degni d'essere
menzionati.
Ed
adesso, cari lettori, dopo avervi fornito queste notizie storiche che sono
servite a farvi gustare meglio il racconto, scopriamo insieme la struttura
architettonica della chiesa, in maniera molto sommaria per non distrarvi troppo
dalla trama e dalle vicende del racconto stesso.
.
DINANZI E DIETRO LA CHIESA
Dinanzi la chiesa l’atmosfera è
magica, celestiale, mistica, rapisce e trasporta. È difficile descrivere così
tanta bellezza. Ma è mio dovere provare almeno a farlo. Proprio all’entrata, la
prima impressione che si ha, è quella di essere aspettati da tempo con
un’attesa quasi bramosa. Sembra esserci una festa pronta ad esplodere quando vi
si entra dentro. La chiesa è stupenda, pittoresca, neanch’io so spiegarmi come
abbia fatto a resistere al forte terremoto del 1908 pur essendo così alta, un
sisma devastante che ha raso al suolo l’intera città dello stretto. Tutta in
stile ottocentesco, la chiesa ha una porta color rosso porpora, poi s’erge
maestosa ed invincibile con due colonne laterali imbattibili che sembrano
sfiorare il cielo. Al centro, la chiesa sale sempre più su progressivamente,
restringendosi via via che s’avvicina alla cima. A circa metà della sua
altezza, vi è una finestra senza più vetri e un balcone arrugginito sempre
attorniati da colombi ed altri uccelli melodici.
Il vento apre e chiude dolcemente la
finestra, il sole riflette su di essa e agli occhi di qualunque osservatore,
sembra di vedere affacciata una dolce ragazza ottocentesca vestita di bianco
che guarda, saluta, ride, scompare e riappare e poi scende giù di corsa per le
scale, apre la porta della chiesa e gli corre incontro con i capelli al vento.
Dietro la chiesa si avverte un
fascino tutto particolare e suggestivo. Vista di spalle sembra quasi magica,
finta, appartenere a un mondo irreale, fiabesco ed è ancora più bella. S’affaccian
piccole finestrelle come tanti oblò che a un certo punto spariscono, finché
s’erge una cupola che inizia grossa e s’invola fine, fino a confondersi con
l’azzurro del cielo.
ALL’INTERNO DELLA CHIESA
Ed io mi trovavo lì per la prima
volta davanti alla chiesa e stavo per varcare la soglia.
Quella porta color rosso porpora
sempre chiusa, l’unico giorno che desideravo ardentemente entrarvi, stranamente
la trovai socchiusa in atto di chi invita a farlo. Cautamente, portando avanti
il piede sinistro, poi il destro, tastando con la mano, aiutandomi con un pezzo
di legno trovato lì per difendermi da possibili spiacevoli incontri, un po’
come quel cieco che cammina aiutandosi col tatto sconoscendo ciò a cui va
incontro, io pian piano, in questo modo entrai. La prima vista varcando la
soglia, fu quella di una stanza polverosa, vuota, abbandonata da tanti anni
ormai. Il silenzio veniva interrotto a squarci da strani rumori che ora vi
entravano, ora vi uscivano dalla finestra, perché quella stanza aveva una finestra
sbarrata, arrugginita che sporgeva dietro la chiesa verso altre tombe. Ai lati
del tetto v’erano appesi due quadri che portavano foto raffiguranti due Madonne
quasi sbiadite. I due quadri erano piccoli e le due Madonne però erano diverse
l’una dall’altra. Una aveva l’espressione triste, compianta, l’altra sembrava
un po’ più rassegnata certa di trovare ristoro nella carità cristiana,
nell’aiuto di Dio. Nel guardare quei quadretti che spiccavano in mezzo al muro
bianco, in parte smangiato, mi vennero in mente tutti coloro che dovevano
essere ricoverati lassù in tempi passati, confortati dall’aiuto della Madonna
ed io immaginavo i dolori, i pianti, le preghiere, le invocazioni che ora
tornavano come un’eco nella stanza che sembrava pacata, addormentata, serena,
straordinariamente elevata al cielo. In cima al tetto, v’era appeso un
lampadario a forma di cerchio che teneva strette delle lampadine spente, alcune
delle quali consumate dal tempo, come quelle candele che vengon meno
affievolendosi dinanzi all’altare. Da quella stanza, vi si entrava in un’altra
tramite un’apertura uguale alla prima però senza più porta. Entrando, per
terra, vi erano pezzi, schegge di legno penso della porta stessa. In
quell’altra stanza di dimensioni e di atmosfera simili alla prima, io vedevo la
cosa più bella: un crocifisso intatto, vivente, a grandezza d’uomo, con uno
sguardo fisso che sembrava dire: “Venite a me voi tutti che siete afflitti ed
io vi consolerò”, e chissà quanti moribondi del passato così han fatto. Intorno
alla stanza, v’erano delle sedie, almeno una ventina, alcune delle quali rotte.
Penso servissero per ascoltare la messa, lo capivo infatti osservando un
vecchio incensiere abbandonato per terra come un barbone addormentato, e lì
vicino, boccette di vetro, calici e roba simile che riconducevano facilmente
alla comunione e all’estrema unzione, sacramenti che accompagnavano e insieme
infondevano speranza in quel luogo di sofferenza e disperazione. Sopra quel
crocifisso carismatico che io continuavo ad ammirare del tutto rapito, v’era
una chiesetta in miniatura uguale a quella dove io mi trovavo. Credo che sia
stata posta sopra l’immagine del Cristo, per simboleggiare l’elevazione divina
dei perseguitati dalle malattie verso Dio stesso, tramite suo figlio Gesù. La terza
ed ultima stanza nel bassopiano della chiesa, era anch’essa come le altre,
anch’essa conteneva delle sedie, una decina circa, sparse sparpagliatamente.
Per terra, v’era un escremento umano che mi fece intuire che qualcuno prima di
me, doveva essere salito fin lassù, mi domandavo chi, visto che la porta la
trovavo sempre chiusa.
Nell’angolo più nascosto della
stanza, come un cane orfano del padrone singhiozza e s’accovaccia per terra,
silenziosamente, così v’era posto un organo con una tastiera unica e scordata,
da tempo mai più suonato.
Io, d’istinto, mi avvicinai e provai
a schiacciare quei tasti polverosi e molli ma non vi usciva suono, solo
silenzio, eppure io avvertivo, nel tastare quell’organo, una celestiale melodia
che sembrava trascinarmi in paradiso.
E pensavo che tutti coloro ch’eran
morti lì, e furono davvero tantissimi, ora dovevano essere felici per
l’eternità. E così la mia pietosa compassione divenne certezza, come il
chiarore d’una luce lontana che si scorge alla fine di un tunnel, in mezzo a
tanto buio. Non so dirvi cari lettori, se quelle strane sensazioni che
avvertivo lì dentro, erano dovute a fenomeni paranormali o a suggestioni
naturali, certo è che sia l’una, sia l’altra ipotesi eran perfettamente valide
visto la misteriosità di quel posto.
Poi, di colpo, restai senza fiato ed
immobile e cominciai subito dopo con passi certi e misurati, a dirigermi verso
un sottoscala dove saliva una scala pericolante a chiocciola. Lentamente provai
a salire cercando di arrivare in quella finestra misteriosa per affacciarmi
anch’io da dove sembrava ci fosse il fantasma d’una dolce ragazza vestita di
bianco con i capelli al vento, ma più salivo e più mi accorgevo che il rischio
aumentava. La scala infatti cominciava a cigolare, era fatta di uno strano tipo
di legno.
Io, ormai del tutto rapito da
quell’incantesimo, ero lì deciso a salire sino in cima come se quella scala
simboleggiasse il mistero ma, ad un certo punto, la vidi spezzata, non ho mai
saputo il perché né se poi più su sarebbe ritornata sana, ma l’impressione che
ebbi in quel momento, fu quella che qualcuno o qualcosa inspiegabile, non
volesse farmi arrivare nemmeno ad un quarto dell’altezza di quella chiesa.
Così, deluso, ritornai indietro, chiusi la porta, e ormai coraggioso e forte, mi
avviai al di fuori per scoprire fra le antiche tombe, quella che ormai sembrava
fortemente vicina, sembrava fortemente chiamarmi.
TRA LE ANTICHE TOMBE
Non appena uscii dalla chiesa, mi
trovai perso tra le tombe antiche dell’Ottocento, ma nello stesso tempo ero
felice perché sentivo che quell’entità che mi stava chiamando, era vicina anche
se molto probabilmente perduta fra tutte quelle che mi circondavano. Mi trovavo
in un vialetto, una specie di villa tutta stile ottocentesco. Al centro, come
una passerella, vi era una strada lunga e stretta che finiva proprio davanti
alla porta della chiesa. Ai lati di questa specie di passerella, tra l’erba
altissima, si protendean fiere le tombe dell’Ottocento.
Erano tantissime, una accanto
all’altra, una più insigne dell’altra. Da lontano mille statue, mille volti,
sembravano uno solo che mi guardasse, che mi spiasse, sì mi spiasse, perché
l’impressione che chiunque salisse lassù proverebbe, sarebbe quella di essere
attentamente spiato, osservato con un occhio meticoloso e scrupoloso, come se
tanta gente sconosciuta ed invisibile, vivesse con lui e intorno a lui, in
altre dimensioni. Tutto ciò a me non suscitava paura. Io mi sentivo come uno
straniero che dopo un lungo e faticosissimo viaggio, scampato fortunatamente ad
un grave pericolo, superstite e sopravvissuto insieme, si trovasse
involontariamente in un luogo prima d’allora sconosciuto, in mezzo a gente
strana ma ospitale e cordiale che gli fa tanta festa, proprio perché mai
nessuno da tempo veniva a trovarli. Così, con questa impressione, sentendomi
ben accetto e perfettamente a mio agio, io camminavo scrutando le tombe una per
una, leggendo e rivivendo la storia gloriosa d’ognuno di loro, osservando i
loro volti, le loro espressioni, i loro baffi lunghissimi, i loro vestiti così
strani per i giorni nostri, ma così nobili, così perfettamente intonati. Vi
erano anche i bambini di quel secolo, vestiti come tanti marinaretti, in
particolare mi colpì uno di loro di circa nove anni che io volli chiamare col
nome di Beniamino. Cari lettori, non posso descrivervi come vorrei, una per
una, quelle numerosissime tombe, sarebbero davvero troppe e non sarebbe giusto
nominarne alcune e altre no, quindi essendo tutte interessanti, mi limito a
dirvi che vorrei prestarvi per un attimo i miei occhi che le han viste già, per
farvi capire quanto in realtà erano belle e pittoresche.
Completamente assorto in un mistico
silenzio, ad un certo punto, sentii dentro di me, una voce fortissima che mi
chiamava da una direzione ben specifica e mi trovai, inconsciamente sospinto,
di fronte ad una strana tomba antica, anch’essa dell’Ottocento. Restai ancora
più silenzioso e assorto. Vedevo questa tomba. Provavo a darle un’immagine, una
sagoma, una figura visto che non v’era un volto. Cercavo di immergermi nella
sua lontana vita. Mi domandavo chi fosse, perché mi stesse chiamando, che cosa
volesse da me, dove si trovasse la sua anima adesso, se mi vedesse, se mi
sentisse, se fosse magari vicino a me. Come il contrapposto del mare che in
profondità è pieno di vita, di alghe che nascono e muoiono, di pesci che
mangiano altri pesci, di continue lotte per sopravvivere, e in superficie
appare immobile e tranquillo, così erano i miei mille interrogativi che
all’esterno non trasparivano perché io ero apparentemente calmo. Quella pietra
era per me come una dolce ninnananna che cullava e portava a riposare tutti i
miei incessanti pensieri. Il suo silenzio profondissimo era la sola ed unica
risposta. In quella tomba senza un volto, v’era scritto semplicemente: “A Marietta
Cianciolo, di Domenico Cianciolo e di Enrichetta Stagno d’Alcontres” e poi
sotto: “D’animo e di modi soavissima, ebbe celestiali virtù, serena bellezza, e
non compié 17 anni. O amore nostro, come faremo infelici senza di te?”. Chi era
questa strana ragazza protagonista del racconto? Com'era la famiglia dalla
quale proveniva?
A questo punto, cari lettori, è
necessario che io interrompa un attimo il corso degli eventi narrati, per
soffermarmi sull’identità di questa strana ragazza, vissuta per quasi 17 anni,
protagonista del romanzo. Devo quindi parlarvi indirettamente della famiglia
Cianciolo di cui la ragazza portava il cognome, tralasciando di fornirvi
informazioni sulla famiglia Stagno D’Alcontres che riguarda invece la madre di
lei.
Vorrei aggiungere soltanto che in
quel periodo nascevano molti matrimoni tra persone che appartenevano a famiglie
nobili e quindi dello stesso alto ceto sociale proprio in virtù delle amicizie
che intercorrevano tra le famiglie medesime. Da uno di questi matrimoni, nacque
Marietta, la protagonista del mio romanzo. Essendo quindi figlia di nobili, era
stata sepolta in quel posto.
NOTIZIE STORICO-BIOGRAFICHE SULLA FAMIGLIA
CIANCIOLO
I
Cianciolo vissero agli inizi dell’Ottocento un po’ a Termini Imerese, un po’ a
Santo Stefano di Camastra, allo stato di nobili in decadenza, di origine
nobiliare antichissima.
Nella
metà dello stesso secolo, le guerre e le continue epidemie che colpirono la
Sicilia specie la zona di Palermo, dovettero farli emigrare a Messina, più
relativamente tranquilla. In poco tempo i Cianciolo presero in mano la città a
causa di numerose cariche politiche che erano state a loro attribuite. Dalla
conoscenza di altre famiglie altolocate messinesi, crebbe in particolare
l’amicizia che poi si tramutò in parentela grazie a parecchi matrimoni, con la
famiglia dei Principi Stagno d’Alcontres che ancora oggi fa sentire la propria
autorità sulla città, sia pure in forma minore essendo ormai in via
d’estinzione il ceppo di famiglie nobili. Per ragioni di non esclusivo rapporto
col racconto, ricordo ancora una volta, di non voler dare accurate informazioni
sui Principi d’Alcontres, e di volermi invece soffermare sulla stirpe
nobiliare, ormai estinta, dei Cianciolo, prendendo ora in esame le
caratteristiche nobiliari di suddetta famiglia.
CARATTERISTICHE NOBILIARI DEI CIANCIOLO
L’arma cioè lo stendardo dei
Cianciolo, era di colore azzurro, al braccio destro di carnagione alias armato
al naturale impugnante una mazza di nero circondata da tre stelle d’argento.
Il nonno di Marietta, barone Vincenzo
Cianciolo, patrizio messinese, tenente colonnello di fanteria, cavaliere
mauriziano e della Corona d’Italia, decorato della medaglia d’argento al valor
militare, figlio del barone Giuseppe e del fu barone Vincenzo e della prima
moglie Girolama Aidone degli antichi Principi d’Alcontres e della fu Lucrezia
Giano.
Il fratello di Marietta, Ernesto,
assessore municipale, cavaliere della Corona d’Italia, due volte sindaco di
Messina.
Il padre di Marietta, Domenico, già
senatore di Messina, figlio del fu barone Vincenzo e della seconda moglie Maria
Balsamo dei Principi dei Castellacci, marito di Enrichetta Stagno d’Alcontres
dei Principi d’Alcontres.
Mentre la famiglia Stagno d’Alcontres
continua ad esercitare un certo potere anche oggi sulla città, in forma minore,
così non lo è per la famiglia Cianciolo che è decaduta a livello di nobiltà.
Infatti, dopo accurate ed approfondite indagini, sono venuto a conoscenza che i
pochi ceppi della famiglia suddetta esistenti attualmente, non sono neppure a
conoscenza della loro antica nobiltà, neanche per sentito dire. Comunque oggi
nella città di Messina, è rimasta solo una via che richiama a questa gloriosa
famiglia ed è stata intitolata a Vincenzo Cianciolo, che era il nonno di
Marietta, come precedentemente accennato.
Lasciamo da parte, cari lettori, le
notizie storiche sulla famiglia Cianciolo e andiamo invece a descrivere quella
che è la tomba di Marietta.
DESCRIZIONE
DELLA TOMBA DI MARIETTA
Situata proprio alle spalle della
chiesa a una decina di metri circa, era visibile anche da molto più lontano.
Portava in alto un marmo di circa 3 metri, rettangolare, firmato dallo scultore
Antonio Saccà che era uno dei più illustri scultori messinesi dell’Ottocento.
In cima al marmo completamente bianco con qualche disegno artistico dello
stesso colore ma un po’ più ricalcato, vi era un cerchio dove sicuramente
doveva esservi stato il volto di Marietta che stranamente, era sparito, forse
solo da quella tomba, poiché i volti delle altre statue erano ancora tutti al
loro posto. La mancanza di esso, la deducevo dai segni che erano ancora
visibili all’interno di quella specie di cerchio creato apposta per inserirvi
il volto stesso. Alla base, la tomba era completamente nuda senza l’ombra d’un
fiore, come del resto ogni tomba di lassù, era davvero troppo il tempo passato
dalla sua morte. Circondata da erba alta non curata e da trifogli, aveva
intorno una catena arrugginita che avvolgeva completamente la sua lapide e
quella del padre che era sepolto, accanto alla figlia, dentro la stessa catena.
La tomba di lui però, anche se uguale per struttura e dimensione a quella di
Marietta, aveva il volto infisso sul marmo. Era un uomo anziano, Domenico
Cianciolo, un volto pallido, sereno, occhi incavati ma dolcissimi che
mostravano una bontà delicata, velata, un’educazione composta, si vedeva dallo
sguardo che era un nobile. La tomba più vicina a quella di lui e della figlia,
era posta alla immediata destra, un paio di metri distante. Apparteneva ad una
neonata vissuta appena 10 giorni dal 7 al 17 aprile del 1872. La bimba, dal
nome non italiano, si chiamava Aline Wolf. Era una tomba a forma di bara di
dimensioni uguali alla piccolissima bambina morta.
Il coperchio era addirittura mezzo
scoperto, e lì sopra mi sedetti io a contemplare la pietra di Marietta, fra due
tombe, una di una bambina di 10 giorni, l’altra di una ragazza di 16 anni che
mi ricordarono ciò che io da sempre sapevo, che la morte non ha età. Ad esser
sincero, non è che la tomba di Marietta avesse qualcosa, dal punto di vista
estetico, di superiore rispetto alle altre, anzi ve ne erano di molto più belle
anche di ragazze della sua stessa età, ma quella tomba era straordinariamente
diversa da tutte le altre, sembrava vivere, parlare, gridare, pareva avesse un
disperato bisogno di comunicare con me. Cominciarono così le mie illusioni
sulla sua tomba mentre mi addentravo sempre più in questa storia che ha
veramente dell’insolito, dell’incredibile.
ILLUSIONI
SULLA TOMBA DI LEI
E così, quasi tutte le mattine, io
salivo lì illudendomi di farle compagnia, di parlare con lei e di essere
ascoltato. Nonostante fossi arrivato all’ultimo anno delle scuole superiori e
quindi prossimo agli esami di maturità, avevo quasi smesso di studiare. La
mattina, anziché andare a scuola, mi recavo al cimitero. Il pomeriggio, invece
di studiare, frequentavo biblioteche e archivi storici per avere notizie sulla
vita passata di lei. Ero diventato proprio un folle o forse lo ero anche prima,
ma Marietta mi diede il famoso colpo di grazia. Ero perso, irrecuperabile. Di
questa storia non ne parlai mai con nessuno né con amici né con i miei
genitori. Volevo restasse un segreto ed ero consapevole che, anche se l’avessi
detto a qualcuno, nessuno mi avrebbe capito e creduto, nessuno avrebbe potuto
giustificare il mio comportamento. Ma ero felice così, non volevo coinvolgere
nessuno, solo io e lei e nessun altro. Non mi importava più di nulla ormai né
degli amici né della scuola, avevo trovato il mio vero motivo per vivere. Non
esisteva pioggia o temporale capace di fermarmi, io ero lassù, ai piedi della
sua pietra, col freddo e col caldo, col sole o con i fulmini. Le portavo rose
sempre fresche, le compravo nuovi portafiori, curavo la sua tomba nei minimi
particolari, guai se v’era un insetto fuori posto, io la rimettevo subito come
doveva essere. In poco tempo, nonostante fosse una tomba antica, era diventata
la più bella e curata dell’intero cimitero grazie a me. Vivevo immerso in
queste magiche illusioni senza che lei mi avesse dato, in quei giorni, alcun
segno di gradire le mie attenzioni. Io, nell’ingenuità della mia giovane età,
mi ero quasi convinto che ormai lei fosse la mia ragazza. Ma la cosa più bella
che ho fatto in quel periodo è stata quella di scriverle, proprio come un innamorato,
tre poesie che ora sottoporrò alla vostra attenzione, cari lettori, inserendole
nel racconto in sequenza, una dopo l’altra, spezzando forse un po’ la trama del
racconto, ma dando allo stesso, almeno mi auguro, una certa inclinazine
poetica.
A
TE MARIETTA (1855-1872)
A te Marietta!
che se sei stata la gioia, l’amore di qualcuno.
A te Marietta!
che non ti ho vista mai.
A te che t’immagino come un fiore
che sboccia, fiorisce e muore senza dolore:
chi potrà mai piangere o lodare
la tua cruda e gelida pietra
che forte ed imperterrita
sembra sfidare la collera del tempo?
A te Marietta!
che ti penso sempre
come una dolce ragazza vestita di bianco
che con il bruno dei tuoi capelli
formi un vistoso e sublime color di primavera
a te che guardando la tua tomba
mi s’incenerisce il cuore.
A te Marietta!
che nessuno un volto ti sa dare
e che con insistenza la tua immagine m’immerge
nel lontano passato della tua vita.
Non so chi tu sia stata
né saprò mai il motivo della morte che presto ti
colpì
ma so con certezza che questa è la tua pietra
e che in essa il tuo corpo giace.
A te Marietta!
scrivo queste righe
per aggrapparmi all’illusione di un lontano
ricordo
che mai ci fu.
Dedicata a colei che brevemente fu
e che mai in vita conobbi
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L’IMMAGINE
Un bagliore improvviso
squarcia la mia mente assente
e dall’ignoto all’ignoto
ora fugge ora torna, ora torna ora fugge.
Pallida e soave
di dolcezza inebriata
m’appar dinanzi
ancor e sempre.
Nitida sagoma,
a tratti t’avvicini
di colpo, opaca t’allontani.
Le sciolte tue trecce
dal terreno mondo sembran distaccarmi
trascinandomi in sconosciute dimensioni
dove neanch’io so chi ero, chi sarò.
Fulgidi gli occhi tuoi
m’abbaglian forte
ed io ti sento in me
o sconosciuta immagine
di profondo mistero velata.
Non un volto, non una realtà
solo negletti ed esili fiori
ed un’antica tomba assopita accanto
per trattenere forte
l’enigma della tua sorte.
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DESCRIZIONE D’UN RITRATTO FUNEBRE
Da lassù, in uno strano sogno, Marietta mi narrò
del giorno in cui morì.
Quel suo lontano ricordo del 28 settembre 1872.
“Ancor limpido era il sole della mia giovinezza
anche se lì fuori con pioggia e vento
battea la morte alla mia porta
e con voce certa ma affannata forte mi gridava:
«Vieni Marietta, presto vieni».
Ricordo lontanamente che in un primo momento
un brivido di paura m’assalia fino a farmi tremar
ma poi aprendo nuovamente gli occhi
il composto sguardo di mio padre il mio coraggio
mi ridiede
e mentre un prete mi donava l’estrema unzione,
io sentivo di dover andare fra le secrete cose.
Scendean dalle scale le mie cugine
tristi apparentemente ma contente e fredde
nell’animo,
mi facean pena vederle illudersi ancor
di quella lor vana ricerca della terrena bellezza
che come un fiore dal petalo si strappa
e appassendo muore.
Suonava l’organo un bimbo mai in vita conosciuto
ma che allora sembraa d’averlo visto da sempre
e in quella dolce musica
stancamente mi si chiudean gli occhi
mai rinnegando quella serena bellezza
che sempre in vita m’avea contraddistinta.
L’ultimo mio sguardo nel pallore della morte
era rivolto verso mia madre
che addolorata ma mai rassegnata
l’ultimo bacio mi donava.
Ed ora dopo che il tempo tante orme ha cancellato
i miei pensieri son tanti ieri che nell’ignoto
fuggon lontano
ed il mio oggi così come domani è armoniosa
luce”.
E fu così
che dal sogno mi destai
completamente assente.
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APPARIZIONE D’UNA FIGURA SOGNANTE
I giorni passavano in fretta, ne
erano trascorsi una ventina circa dal giorno in cui vidi per la prima volta la
tomba di Marietta, ed eravamo quasi alla fine del mese di gennaio. Io mi
addentravo sempre più in questa insolita storia, lasciandomi ormai del tutto
rapire dalla forza dei miei sogni, della mia fantasia, della mia immaginazione.
Non riuscivo più a distinguere il limite oltre il quale il sogno svanisce per
far subentrare la realtà. Sogno e realtà erano diventati per me un tutt’uno.
Vivevo la mia illusione con gioia, entusiasmo, voglia di avvicinarmi sempre di
più finché, proprio verso la fine di gennaio dell’anno 1984, quello che da
sempre sognavo, stava per trasformarsi in realtà e avvenne così quello che più
ci penso e più mi accorgo che ha dello straordinario, dell’incredibile.
Finalmente ora, io potevo vedere Marietta.
Dolcemente chinata, quasi curva su
quella che era la sua tomba, di abiti ottocenteschi vestita, illuminata da un
raggio di luce come un tremulo brillio rapito così fugacemente dall’infinita
luce divina, la vidi mentre coglieva quei fiori che io stesso le avevo portato
sulla sua pietra. Li coglieva uno dopo l’altro fino a formarne un mazzo, poi si
slegò una treccia dal bruno dei suoi capelli, e legò insieme quei fiori dai
colori misti che profumavano di primavera. Io la osservavo attentamente,
meravigliato e confuso, ma senza aver paura, una figura così sublime non poteva
infondere timore ma solo tenerezza e profonda commozione. L’unica cosa che
riuscivo a connettere nella magia di quell’istante, era che quella ragazza che
stavo osservando, aveva un aspetto identico a come io stesso l’avevo
immaginata.
Poi lei alzò il capo dolcemente, mi
guardò e mi sorrise mostrandomi lo splendore d’un volto angelico pallido e
soave, contornato da un alone di mistica bellezza, puntando i suoi occhi scuri
penetranti, dritti e fissi sui miei, ed io, non potendo pur volendolo spostare
i miei occhi in nessun’altra direzione, sostenni come ipnotizzato il suo
sguardo.
E fu così che in quella mattina di
gennaio, nobile nel portamento e aggraziata nei gesti, misteriosamente
affascinante lei mi apparve.
Ha avuto inizio così il primo dialogo
con lei. Abbandono, ma solo per la parte relativa ai dialoghi, la narrazione in
prima persona, per darvi una lettura più oggettiva dell’avvenimento.
IL PRIMO INCONTRO
Manuel: Ma tu chi sei?
Marietta: Io sono Marietta, la ragazza che tu stai
cercando.
Manuel: Ma non è possibile, è assurdo, non può
essere, io sto sognando, ho un’allucinazione. Tu sei morta, non puoi essere
viva.
Marietta: Sì Manuel, io sono morta ma posso rinascere
grazie ai tuoi sogni, alla tua fantasia, alla tua immaginazione. Tu sei un ragazzo
capace di trasformare in sogno e poesia la realtà ed è per questo che io ho
voluto premiarti.
Manuel: No, non può essere, tu sei solo il frutto
della mia immaginazione, la proiezione dei miei sogni, non puoi essere quella
ragazza morta nel 1872.
Marietta: Sì Manuel, sono proprio io invece, la ragazza
morta tanto tempo fa. Io ti conosco ormai, so chi sei, ti seguo da sempre, sono
molto più vicina di quanto tu possa pensare. Io sono viva, viva, viva.
Manuel: Troppo forte! Ma allora è meraviglioso. Ma tu
ci pensi? Ti rendi conto? Tu eri morta per modo di dire ed io sono ancora vivo
ma nonostante questo io ti vedo, ti parlo, ti sento come se il tempo non fosse
mai passato. Mio Dio, è troppo bello! è meraviglioso.
Marietta: Sì Manuel, e questo è avvenuto grazie alla forza
creativa dei tuoi sogni.
COME
LA VEDEVO
La sua voce era dolce e comune a
quella di tante altre ragazze della mia città. Aveva infatti quel tipico
accento messinese che si percepisce subito, specie per chi viene da fuori, pur
parlando in perfetto italiano. Quella sua voce fina, contrastava un po’ con
quel suo aspetto angelico, non perché non fosse gradevole all’orecchio, ma
perché non possedeva quell’alone di mistero che era invece riscontrabile nella
sua figura. La voce insomma sembrava più reale e umana del suo aspetto. Man
mano che mi parlava e le nostre conversazioni diventavano più intime, anche la
sua immagine si faceva via via sempre più normale, fino ad abbandonare del
tutto quel non so che di inquietante e misterioso che aveva in lei quando mi
apparve per la prima volta. Ad un certo punto, la sua fisionomia divenne
talmente reale da sembrare assolutamente umana, tanto da poter essere scambiata
tranquillamente per qualunque altra ragazza. L’unico indizio che mi
riconducesse alla sua vera natura, mi era fornito dal suo abbigliamento che era
del tutto ottocentesco e quindi la rendeva inevitabilmente diversa. Tutto
questo però non sottraeva nulla al suo fascino ma la faceva apparire
straordinariamente viva e reale, appartenente appieno alla mia dimensione,
facendomi sentire perfettamente a mio agio con lei. Indossava un lungo vestito
bianco che le donava molto e che le arrivava fin quasi ai piedi, con dei ricami
fantasiosi dello stesso colore ma che si notavano perché d’un bianco più intenso.
Era un vestito leggero e primaverile anche se a maniche lunghe in forte
contrasto col periodo invernale di allora. Mi appariva vestita sempre allo
stesso modo. Le scarpe erano nere, senza tacchi, anch’esse primaverili ma mi
sembravano uguali a quelle usate ai giorni nostri.
Sicuramente dovevano essere per forza
ottocentesche ma io, forse perché da sempre ignorante in fatto di moda, non lo
capivo. A me davano quasi l’impressione di essere le scarpe di Cenerentola ed
io mi sentivo il famoso principe azzurro. Il suo fisico era snello, non grasso
e non magro, perfettamente giusto, adatto a indossare qualsiasi tipo di
vestito. Le sue forme delicate non apparivano troppo evidenziate né
particolarmente seducenti. Era alta quasi quanto me, 1,70 circa. La sua
carnagione chiara era più da ragazza nordica che da siciliana ma serviva a
farle aumentare il fascino perché spiccava col bruno dei suoi capelli e col
nero degli occhi, quegli occhi sempre puntati sui miei quando mi parlava, quasi
non riuscisse mai a distrarsi tanto da procurarmi un certo imbarazzo, una
sottile pudica timidezza.
Il suo volto aveva perso quel pallore
angelico, diventando d’un colore normale, persino solare. Le sue ciglia, il suo
naso, i denti, la bocca, tutto di lei mi appariva perfetto senza nessun
difetto. Era il suo un viso acqua e sapone, senza trucco, dai lineamenti
delicati, che dimostrava esattamente la sua età, quasi 17 anni. Era sicuramente
carina, direi bella ma non bellissima, non era dotata di un fascino eccelso. Mi
sembrava umana, terribilmente umana.
Non faceva smorfie di nessun tipo né
cambiava spesso d’umore ma aveva un bel carattere, sempre allegro, disponibile
al dialogo, socievole. Dolce nei gesti, aveva però un qualcosa di alterato nel
portamento, involontario, forse perché era nobile. I suoi capelli erano
bellissimi, lunghi ma non troppo, ondulati, le arrivavano fino alle spalle.
Erano bruni, del colore che a me piaceva di più in una ragazza, si era
completamente tolta le trecce. Era, in conclusione, una ragazza normalissima,
tranne un piccolissimo e irrilevante particolare, era morta più di cento anni
fa.
Da questo momento in poi, il racconto
assume le vesti del dialogo che io ho voluto chiamare “Dialogo della
semplicità”, per mettere in evidenza come nella semplicità, e quindi nella
purezza incontaminata dei sogni, si possono vivere esperienze ed emozioni
trascinanti, uniche, di altre dimensioni.
DIALOGO
DELLA SEMPLICITA'
Marietta: Grazie Manuel per essere venuto a trovarmi.
Manuel: Figurati, lo faccio con piacere. Parliamo un
po’ di te, vuoi?
Marietta: Certo.
Manuel: Come passavi il tuo tempo libero?
Marietta: La mattina uscivo con mia madre oppure con mia
cugina o qualche amica, questo quando non c’era la scuola, specie nelle
vacanze.
Manuel: Ma tu eri brava a scuola?
Marietta: Moltissimo, ero la prima della classe. Pensa che
quando sono morta, i miei compagni, le mie compagne, i miei professori erano
tutti al mio funerale. Molti di loro piangevano. Alla fine mi hanno fatto un
applauso lunghissimo.
Manuel: Fino a che classe sei arrivata?
Marietta: Fino quasi alla fine cioè alla terza media. Ai
miei tempi chi aveva la licenza media era come un laureato dei tempi tuoi. Io
perché ero nobile ero istruita, ma quasi tutti gli altri ragazzi lavoravano o
facevano solo la scuola elementare.
Manuel: Con tuo padre andavi in giro a fare
passeggiate?
Marietta: Sì, ma poche volte, era sempre impegnato con la
politica, era senatore. Ricordo che mi portava al teatro. Sai, era un padre
affettuosissimo e premuroso, nel senso che la politica restava fuori dalla
famiglia. Ogni Natale mi portava i regali più belli. Avevo un albero favoloso,
ricco di colori e sorprese.
Manuel: E che volevi di più dalla vita?
Marietta: Tutto ancora, ma mi è stata tolta e forse è
stato meglio così. Non rimpiango proprio nulla di ciò che avevo sulla terra.
Dio mi ha fatto dei doni molto più belli ed eterni. Le sue idee non sono quelle
degli uomini.
Manuel: Ma tu eri felice, orgogliosa di essere figlia
di nobili o preferivi essere nata normale o magari povera?
Marietta: Per me era indifferente. Sono sempre stata
modesta. Non ho mai avuto arie. Poi, del resto, non sarebbe stato merito mio,
così come sono nata nobile, potevo benissimo nascere povera. Sono nata nobile
ma non sono morta lo stesso? La ricchezza terrena non vale niente, è quella
dell’anima che conta.
Manuel: Eravate ricchi?
Marietta: Assolutamente no! Ma che cosa ti sei messo in
testa, che avevamo castelli giganteschi come quelli delle favole? Ai miei tempi
c’erano un’infinità di problemi, tante malattie incurabili, addirittura il
Regno d’Italia era stato proclamato da poco, c’erano tante rivalità tra gli
uomini, tanti contrasti.
Manuel: Vedo che sei molto preparata in storia!
Marietta: Ma no, certe cose si sapevano per sentito dire.
Noi abitavamo in una casa un po’ più grande delle altre a livello terra. Sai
dove? In centro, al Corso Cavour, allora si chiamava così e non so se esiste
ancora, le strade erano molto diverse da quelle di oggi. Io ricordo che avevo
una stanzetta che sporgeva su un mercato e c’era sempre tanto traffico, tanta
confusione con tutta la gente che andava a comprare. In realtà non c’era molta
scelta nel mangiare, c’era frutta, pesce, uova, poca carne ma comunque era
tutta roba genuina. C’era miseria in quel periodo.
Manuel: Come fai a dirmi che non eravate ricchi? Non
ci credo.
Marietta: Ricchi per modo di dire, avevamo più dei poveri,
proprietà terriere soprattutto, te l’ho già detto, c’era povertà, non poteva
parlarsi di vera e propria ricchezza. E poi io ero piccola per interessarmi a queste
cose. I soldi, la politica per me era come se non esistessero. Vivevo semplice
con celestiale virtù e serena bellezza, proprio come ha fatto scrivere mio
padre sulla mia tomba. A proposito di mio padre, sai, ha sofferto molto quando
sono morta! Ero l’unica sua figlia, era particolarmente attaccato a me, mi
voleva bene. Avevo anche un fratello, Ernesto, era un anno più piccolo di me.
Pensa che è stato per due volte sindaco di Messina. Lui è morto a 49 anni nel
1905. Vedi questo signore sepolto al mio fianco? È mio padre, è morto 12 anni
dopo di me, come vedi la morte non ha età. Guardalo bene, trovi che mi
somiglia? Dicevano tutti che mi somigliava moltissimo. Lui il volto ce l’ha
ancora sulla tomba, il mio si è rotto col terremoto del 1908. Ma cosa importa?
Tanto tu mi vedi lo stesso.
Manuel: E tua madre? Tua madre dov’è sepolta? Come
mai non è qui con te?
Marietta: Lei è sempre vicino a me. Qui al cimitero non so
dove sia sepolta. Forse perché appartiene alla famiglia Stagno d’Alcontres sarà
in qualche altro posto. Sai, c’è pure una mia cugina morta a 14 anni sepolta
dove ci sono i bambini del mio secolo, il suo cognome era proprio Stagno
d’Alcontres.
Manuel: Io ho fatto delle ricerche su di te e ho
notato che nello schedario della tua famiglia risultano proprio tutti, tranne
te. Come mai?
Marietta: Non lo so, è strano. Forse perché ho vissuto
talmente poco e non sono stata né sposata e né in politica.
Manuel: Ai tuoi tempi si sposavano presto?
Marietta: Sì, almeno il più delle volte. C’erano molti
matrimoni che venivano stabiliti dai genitori. Comunque mio padre e mia madre
si amavano veramente.
Manuel: Che facevi nel tuo tempo libero?
Marietta: Un po’ di tutto. Disegnavo, mi piaceva molto.
Dipingevo il sole, il mare, la natura, paesaggi. Mi piaceva andare a cavalcare,
avevamo un cavallo piccolino, si chiamava Puffy. Leggevo libri d’avventura,
libri d’amore, scrivevo poesie. A proposito. Ho letto quella poesia che mi hai
dedicato. È bellissima, mi ha colpita fino a farmi scappare le lacrime. È
insolita, irreale, strana proprio come noi due che siamo qui a parlare da tanto
tempo. Per noi è tutto così naturale, per gli altri magari è solo follia,
fantasia. Eppure noi due siamo reali. Perché non provi a scrivere un libro
sulla storia di noi due?
Manuel: Mi prenderebbero per pazzo, non lo
leggerebbero neanche. Ma tu eri romantica? Ti piaceva la musica?
Marietta: Sì, Manuel, ero romanticissima come te e amavo
la musica che era molto diversa da quella rumorosa di oggi. Mi ha fatto piacere
che tu ti sia comprato un disco con la musica dell’Ottocento, così ti ricordi
di me. Ma sei ancora convinto di volerti fare una tomba vicino alla mia?
Manuel: Certo che lo sono, vorrei essere sepolto
vicino a te, quando sarà.
Marietta: Ma tu sei completamente pazzo, ma come puoi
pensare una assurdità simile?
Manuel: Perché? Mi è sempre piaciuta questa zona del
cimitero, queste tombe antiche. Ma sicuramente non me lo permetterebbero. Qui
possono starci solo le tombe del tuo secolo.
Marietta: E meno male, così almeno cancelli dalla tua
mente una idea simile. Ascolta Manuel, anch’io amavo come te la vita terrena,
ogni cosa, un fiore, un insetto, un bimbo, una stella, una coccinella. Chi
meglio di me ti può capire? Perché ero uguale a te. So che tu ti domandi perché
quel bambino ingenuo, tanto bellino, che poi cresce man mano, che tu vedi nelle
tue fotografie, debba invecchiare e magari in punto di morte anche soffrire
come ho sofferto io. Ma sappi Manuel, che se Dio toglie qualcosa, lo fa solo
per dare di più, molto di più. Ti darà doni molto più belli, più grandi, più
certi, eterni. Devi credere e avere fiducia in lui. Dinanzi a Dio si è sempre
giovani, molto più della giovinezza terrena. Sulla terra prima o poi tutto
sbiadisce. In cielo tutto rimane per sempre puro, intatto, incontaminato. Non
ha nessuna importanza se metterai la tua tomba vicino alla mia, perché sono
solo pietre e null’altro. Noi saremo vicini lo stesso nei giardini dei cieli,
se solo tu lo vorrai, dipende solo da te. Sarò io stessa in punto di morte a
prenderti dolcemente per mano e a farti contemplare la bellezza di ciò che è
Dio e anche tu, così come ho fatto io, piangerai di gioia. Tutto sarà
chiarezza, consapevolezza nell'analizzare con occhi di verità il proprio
operare terreno. Visionando dall’esterno, in punto di morte, il film della tua
vita, ciò che hai vissuto ti sembrerà così lontano, non tanto nel tempo, quanto
nello spirito. Si nasce sulla terra per morire, con un grido dentro che solo
Dio fatto uomo può sentire e comprendere. L’esistenza terrena fugacemente
svanisce nell’inesorabile scorrere del tempo, ma da ogni notte buia rinasce
sempre il sole, e tu, tra suoni e colori indefinibili, vivrai la vera vita con
amore.
Manuel: Mi sto commuovendo, mi stanno quasi scappando
le lacrime, sei più poetica di me. Posso prendere la tua mano?
Marietta: Certo che puoi.
Manuel: Allora tendi la tua mano verso la mia ed io
farò la stessa cosa. Così arriverò a intersecare le mie dita con le tue dita in
modo che possa stringerti forte la mano e sentirti più vicina.
Marietta: Va bene Manuel, ma non puoi sentire la mia
struttura fisica perché i sogni non hanno corpo, stringeresti l’aria.
Manuel: Non m’importa. Afferra la mia mano adesso con
la tua, le tue dita nelle mie, e stringiamo forte insieme.
Marietta: Ora che le nostre dita si stringono cosa stai
provando Manuel?
Manuel: Forte, Marietta, troppo forte! Sto stringendo
l’aria, non te, tu sei trasparente, sei un fantasma allora.
Marietta: Te l’avevo detto che non puoi sentirmi
fisicamente.
Manuel: È emozionante lo stesso. È come un leggero
brivido, una piccolissima scossa elettrica che non mi procura nessun fastidio,
nessun dolore. E tu cosa provi?
Marietta: Le stesse cose che stai provando tu.
Manuel: Posso baciarti sulle labbra?
Marietta: Sì, se vuoi.
Manuel: Troppo forte, fantastico!
Marietta: Cosa hai sentito?
Manuel: Una strana sensazione. Come se sulle mie
labbra, fosse caduta una gocciolina d’acqua fredda. Marietta dimmi la verità,
mi trovi carino come ragazzo?
Marietta: Certo che lo sei.
Manuel: Se tu fossi viva e appartenessi al mondo
reale, ti innamoreresti di me?
Marietta: Credo di sì.
Manuel: E mi sposeresti?
Marietta: Credo di sì.
Manuel: E vorresti figli da me?
Marietta: Non lo so, non ci ho mai pensato. Ma tu hai la
ragazza?
Manuel: No!
Marietta: Perché?
Manuel: Non lo so, forse perché cerco una ragazza
all’antica come te e non l’ho mai potuta trovare. Forse non esiste neanche.
Senti, se portassi mia madre, mio padre, un amico qui, ti potrebbero vedere?
Marietta: No, solo tu puoi vedermi.
Manuel: E se provassi a raccontare a qualcuno
l’esperienza che sto vivendo?
Marietta: Non verresti creduto, forse penserebbero che sei
pazzo, un visionario.
Manuel: Cos’è la morte?
Marietta: Esiste solo quella fisica.
Manuel: Ma cos’è? Perché si muore?
Marietta: È come la nascita, solo che è al contrario.
L’anima non muore mai, si trasforma soltanto cambiando dimensione ma noi
restiamo sempre gli stessi, liberi ciascuno nella propria individualità in una
dimensione di immortalità e benessere nell’amore eterno.
Manuel: Ma tu quanti anni hai ora?
Marietta: Potrei averne 16 come potrei averne 1000. Non
esiste il tempo nel mondo dello spirito. Non ho un’età. Sono viva più dei vivi.
Manuel: Chi è Dio? Com’è?
Marietta: È infinita luce, è infinito amore. Devi adorarlo
mettendolo al primo posto nella tua vita e aiuta il tuo prossimo dando forza e
coraggio a chi non ce la fa.
Manuel: Ma chi l’ha creato?
Marietta: Quando si ama veramente qualcuno, non ci si
chiede mai il perché e da dove nasca l’amore, si ama e basta. Troverai la
risposta leggendo la Bibbia e dentro la Chiesa, nel tuo cuore la verità.
Manuel: E il diavolo esiste o è solo un’invenzione
per metterci paura?
Marietta: Non è un mostro con le corna. È l’opposto di
Dio, il contrario del bene. Con astuzia sfrutta il tuo punto debole e ti domina
se credi che non esista, presentandoti il male come bene. Non può nulla contro
la volontà del tuo cuore.
Manuel: Potrei parlare con mia nonna che è morta
quando io ero ancora piccolo?
Marietta: Tua nonna non è mai morta e ha lo stesso
desiderio di parlare con te anche perché sa molte cose più di te.
Manuel: Ma allora perché non possiamo parlarci?
Marietta: Per lo stesso motivo per il quale un pesce non
può stare fuori dell’acqua e un uomo non può vivere sott’acqua.
Manuel: Ma perché dovrei credere a ciò che non vedo?
Marietta: Molte cose nella vita esistono ma non si vedono.
Pensa alle onde elettromagnetiche, alla forza del pensiero. Il mondo dello
spirito è vasto e complesso, innamoratene! Impara a guardare lontano, Dio ha un
progetto d’amore anche per te. Mantieni con lui un rapporto vivo, gioioso e
costante e nulla potrà insidiarti.
Manuel: Esiste il paradiso?
Marietta: È la luce di Dio.
Manuel: E l’inferno?
Marietta: È la mancanza di questa luce.
Manuel: Chi sono i santi?
Marietta: Anime più vicine alla luce. Cercali e ti
aiuteranno.
Manuel: E i cattivi?
Marietta: Anime che non vedono la luce ma possono
rivederla se si redimono vagando prima nella nebbia del purgatorio. Dio mette
alla prova. Servono fede, perseveranza e pazienza affinchè Egli operi nella
nostra vita.
Manuel: Puoi dirmi quando morirò?
Marietta: Non lo so ma anche se lo sapessi non te lo direi
mai, sarebbe la fine, un conto alla rovescia. Non un secondo in più, non un
secondo in meno di quando Dio ha già stabilito.
Manuel: Cosa ti piace di più di me?
Marietta: La tua sensibilità disarmante.
Manuel: Quando ci sarà la fine del mondo?
Marietta: Non lo so ma anche se lo sapessi, non te lo
direi.
Manuel: È peccato suicidarsi?
Marietta: Perché questa domanda? Mi fai paura. È uguale a
uccidere. Non puoi fuggire dai tuoi tormenti con la morte, li ritroveresti
nell'altra vita.
Manuel: Qual’è il più grave peccato?
Marietta: Ce ne sono tanti, forse l’odio. Con la preghiera
e portando la croce si annullano. Serve la conversione del cuore per la
redenzione.
Manuel: Dove sono adesso i grandi poeti del passato
che magari avevano le mie stesse inquietudini, le mie stesse paure?
Marietta: Sono tutti vivi, stanno sperimentando la luce,
hanno un’ispirazione molto più profonda e superiore a quella che possedevano
sulla terra.
Ho narrato solo una minima parte delle
conversazioni avute con Marietta. Il tempo in cui mi incontravo con lei è
durato assiduamente per una quindicina di giorni, dagli ultimi di gennaio sino
a metà del mese successivo nell’anno 1984. Il posto era sempre lo stesso, la
parte più alta del cimitero. L’ora era sempre quella, dalle 9 del mattino sino
a mezzogiorno.
Sostituivo praticamente la scuola col
cimitero. Tutto questo ebbe fine, o stava per finire, quando Marietta,
improvvisamente, decise di non apparirmi più lasciandomi per sempre ed io, in
preda alla disperazione, cercavo di sapere da lei il motivo.
Riporto quest’ultimo dialogo proprio
alla fine del racconto, considerandolo messaggio personale al lettore e vero
significato di tutta la storia.
DIALOGO
TRA MANUEL (IL VERO ME STESSO)
E MARIETTA
Manuel: Perché vuoi scomparire Marietta? Tu eri viva,
esistevi davvero. Pure i fantasmi si allontanano da me.
Marietta: No Manuel, io non esisto più, non posso
esistere, non posso vivere per colpa degli altri che non vogliono più farti
sognare. Tu devi restare con i piedi per terra altrimenti verresti deriso da
tutti, preso per pazzo. Devi convincerti che io sono il frutto della tua grande
immaginazione, la proiezione del vero te stesso. Tu mi hai fatto rinascere
dalla morte perché hai creduto con tutta la tua mente, con tutto il tuo cuore,
alla forza di sognare che hai dentro di te. Io prima ti ero vicina, ti parlavo,
ti capivo, ero reale perché tu ascoltavi la voce dei tuoi desideri, dei tuoi
sogni. Ma adesso tu stai dubitando della tua immaginazione, non ascolti più il
vero te stesso e mi stai facendo morire per sempre. Manuel perché non ascolti
più la voce del bambino che è in te? Non senti
questo caldo agli occhi che vorrebbe essere pianto? Tu mi avevi creato,
adesso perché vuoi distruggermi? Con me morirai anche tu, non ti ritroverai
più, resterai solo, almeno io ti capivo perché ero lo specchio del vero te
stesso, ero la tua libertà, la tua energia vitale, perché vuoi annientare tutto?
Manuel non sono io che sto fuggendo da te ma sei tu che per sempre stai
fuggendo da me. Ti prego resta te stesso, ascolta i tuoi sogni, non morire
anche tu diventando uguale agli altri, tu sei diverso da loro. Quando si crede
veramente ai sogni, niente diventa impossibile. Io ero morta e grazie a te sono
rinata.
Manuel: Marietta, ma se per gli uomini è così
importante sognare come mi stai dicendo tu, perché allora non ascoltano i loro
sogni? perché se io provo a sognare mi emarginano?
Marietta: Tutto questo Manuel accade perché sognare è come
essere liberi. Gli uomini sono nati liberi perché sono spiriti liberi, hanno
avuto da Dio il dono della libertà e quindi hanno diritto di sognare ma, chissà
perché, hanno paura della loro stessa libertà, non riescono ad essere se stessi
e preferiscono chiudere le loro menti e così non sognano più. È per questo che
nel mondo c’è odio, invidia, materialismo, c’è l’arroganza del potere, ci sono
le guerre, perché è molto più facile comandare sulle menti chiuse che non credono
più a niente e così si arriverà alla fine.
Manuel: Marietta, io sento che tu hai ragione. Io non
voglio soffocare la mia mente, la mia libertà, la voglia di sognare, voglio
restare me stesso ma come posso fare? Ormai vivo in un mondo chiuso che non sogna
più. Se resterò me stesso, non mi capirà e non mi crederà nessuno. Cosa posso
fare Marietta? Ti prego aiutami, cosa posso fare?
Marietta: Devi restare sempre te stesso Manuel. Vivi la
tua libertà, dai ascolto ai tuoi sogni e non sarai mai solo. Saranno i tuoi
stessi sogni a portarti lontano, a farti compagnia e poi ci sarò io con te
perché sento che stai ricominciando a credere ed io non sto morendo più. Scrivi
una storia, la storia di noi due, leggila a chiunque, bussa ad ogni porta. Non
aver paura se ti prenderanno in giro perché ci sarò io a darti forza. Racconta
di noi due al mondo intero, ai bambini, ai vecchi, non ha età la forza
dell’immaginazione. Vedrai che qualcuno, in questo momento, sentendo la nostra
storia, sta cominciando ad aprire la sua mente e a provare a volare finalmente,
perché ci ha capiti, perché dentro è uguale a noi ed è bello poter essere
capiti da qualcuno per quello che siamo realmente, è bello poter aiutare il
nostro prossimo. Coraggio Manuel, dammi la mano e camminiamo insieme.
Manuel: Sì Marietta, camminiamo insieme.
VENT’ANNI
DOPO
Dopo vent’anni, l’altro giorno, sono
tornato in quel posto. Ho rivisto le tombe abbandonate dell’Ottocento ma non mi
hanno suscitato nessuna emozione. Sono stato anche sulla tomba di Marietta ma
mi è sembrata anch’essa come tutte le altre, fredda e muta, non aveva più nulla
da comunicarmi. Era come se la storia di questo libro fosse stata vissuta da
un’altra persona e non da me.
Sono tornato a casa con la morte nel
cuore e più solo di prima. Mi rendevo conto che mai più avrei potuto rivedere
Marietta perché una ragazza di 16 anni non avrebbe più nulla da dire ad un uomo
di 40 ma soprattutto perché con l’età adulta, assieme alla giovinezza, avevo
perduto anche la mia ingenuità.
“Colei che brevemente fu
e che mai in vita conobbi”
è dedicato a Marietta Cianciolo
anche se non saprò mai se le piacerà.
Ringrazio tutti coloro che mi hanno
pazientemente aiutato
nelle ricerche su argomentazioni utili al
racconto
in particolare tutti gli addetti al servizio e
alla custodia di biblioteche, uffici anagrafici, annali ed archivi storici.
Ringrazio mia madre per non avermi preso per
pazzo nello scrivere il racconto.
Ringrazio infine il mio genio e la mia follia
che mi hanno permesso di creare questo libro.
Claudio Cisco


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